Il pianeta - Kolyma - Magadan - Dal'stroj

Qualche residente ripuliva dalla neve la soglia di casa. I cani randagi razzolavano tra i rifiuti. A nord, lunghe pareti rocciose schiacciavano la periferia della città, e al di là fumavano le ciminiere delle fabbriche, come se dietro le colline stesse passando una nave a vapore. Sotto di me, i monti e i promontori della baia formavano attorno al mare una palizzata circolare incappucciata di neve. L’acqua era blu ardesia e così calma e immobile che conservava la scia di una nave scomparsa. Stavo scendendo la strada che i prigionieri avevano tracciato attorno al promontorio del porto. In cima, da una manciata di casupole, si sviluppava una scalinata dissestata. Era puntellata con lastre di cemento e tutta buche. Era deserta, ma con la mente li vidi venire avanti marciando. Tuffai la mano nell’acqua, oltre il bordo ghiacciato. Provai una strana, fugace esaltazione.

Tutto quello che era successo sembrava passato da tempo immemorabile. Non poteva più (davvero?) ripetersi. La riva era cosparsa cli ferri e cavi, cemento scheggiato, vecchie funi, pietre grezze. Al largo era ormeggiata qualche nave da carico. Allora la mente si affollò di altre navi: le « navi della morte del mare di Ochotsk », come le chiamava Sacharov, che trasportavano i loro carichi di ottomila, dodicimila schiavi stipati nelle stive. Quando passavano davanti al Giappone, i boccaporti venivano chiusi e le imbarcazioni procedevano a luci spente nella notte. Nel 1939 la nave a vapore Indigirka colò a picco col suo carico intrappolato all’interno. Nel 1933 la Dzurma partì troppo tardi e rimase imprigionata nel pack per nove mesi, durante i quali tutti i dodicimila prigionieri morirono assiderati e metà dell’equipaggio impazzì. Quando le navi raggiungevano il porto, i malati e i morti venivano scaricati insieme sul molo dove mi trovavo.

Evgenija Ginzburg era stata una di loro. Fu raccolta da una dottoressa, che la curò e le salvò la vita, forse perché voleva riparare alle atrocità commesse dal marito che era un poliziotto addetto agli interrogatori. La Ginzburg lo capì. Nella Kolyma, disse, la cosa più difficile da sopportare era il ricordo delle persone amate. Forse perché Fedor era un ebreo russo, era cresciuto ossessionato dai campi di lavoro, il suo appartamento era pieno di riviste politiche e di vecchi samizdat. Gli specchi erano appesi alle pareti con lo spago. La cucina era disseminata di bottiglie vuote di vino moldavo e l’atrio era ingombro di attrezzature da montagna e da speleologia. La barba era lunga e incolta, credo, per Io studio delle persecuzioni, o forse era stato altro a imprimergli in viso quell’espressione malinconica. Fu lui a dirmi che in quella città, il cui tetro passato era stato rimosso con indifferenza, uno dei principali campi di transito era sopravvissuto come caserma della polizia di sicurezza. « L’hanno abbandonata cinque mesi fa. Presto la raderanno al suolo.

Tutto viene raso al suolo, da queste parti. Adesso naturalmente è protetta da un muro di cinta». Mi valutò col suo sguardo dolce. « Ma io so come entrarci». Così tornammo alla via dei Trasporti, nel punto in cui attraversava un ruscello e piegava a nord, verso le miniere. Nel complesso di edifici sprofondati nel silenzio, Fedor aveva trovato un varco in un punto crollato lungo il muro di cinta di cemento e filo spinato. Vi si infilò. Dall’altra parte la neve era intatta. Per un attimo restammo fermi a guardare, infarinati di polvere di cemento. Volevo un po' di tempo per prendere qualche appunto, per non dimenticare. Ero il primo straniero che vedeva quel posto, disse, e sarei stato l’ultimo.

Ma cominciammo a correre, come fossimo ladri. Adesso, quando rivedo gli appunti presi in fretta, con la grafia spigolosa per il freddo, il posto mi ricompare in mente con violenza, come in una sequenza di istantanee. Ricordo la mensa (strisciammo sotto le finestre sbarrate) che i prigionieri avevano dipinto con scene naif in tinte pastello: un sogno di quiete tra i campi. il pavimento aveva ceduto sotto il peso delle travi crollate. Ricordo i dormitori e le stanze dove ai prigionieri (immaginai) venivano consegnati i pastrani di bambagina e le giacche imbottite. Poi ricordo Fedor che mi indica un edificio a tre piani di fronte a noi. Superata la porta che si apriva su una serie di gradini in pietra, tirò fuori dalla sacca due paia di stivali di gomma e due elmetti con le luci in fronte, e ci calammo nel buio fetido.

L’acqua che non era ghiacciata ci arrivava ai ginocchi. Le nostre parole echeggiavano in sussurri che andavano a perdersi lontano. « Questo era l’edificio delle punizioni». Continuammo a procedere nell’acqua lungo i corridoi e più giù lungo un canale fognario. Persi il conto delle porte di ferro affioranti nel fetore, delle grate che si affacciavano sul buio.

Ogni cella sotterranea conteneva ancora due piattaforme di legno sostenute da strutture in ferro su cui potevano dormire una quarantina di prigionieri. Solo nel primo sotterraneo c’erano venti celle del genere. Le pareti erano ricoperte di ghiaccio. Lì i prigionieri, spiegò Fedor (ne aveva conosciuto uno), schiacciavano i corpi dei morti contro il muro per isolarsi dal freddo. Avevano lasciato delle scritte appena accennate, illeggibili, grattando la pietra con i cucchiai. « Ser... olenko... 1952... Pant... » Le nostre luci riuscivano a malapena a illuminarle. In quelle caverne senza speranza, disse, la maggior parte dei detenuti era morta. Il suo amico era sopravvissuto perché era giovane. « Che cosa aveva fatto? » domandai. « Non lo sapeva » rispose Fedor. « Ha perduto la memoria».

Nella Kolyma era facile perdere la memoria, aveva scritto Shalamov. Era più spendibile dei polmoni o delle mani. Di fatto non serviva a nulla. Un’ora prima dell’alba ritorno tra le colline verso l’interno per l’ultima volta. Un giovane geologo, Jurij, dice di conoscere la strada che porta a Butugychag e che il suo furgone a quattro ruote motrici può portarci là. Ma non è posto in cui attardarsi. La popolazione nativa degli evenchi lo chiama « Il posto dove le renne si ammalano » perché i pastori si sono accorti che qualcosa non va in quella zona. il terreno è saturo di uranio radioattivo. Come entriamo nella valle, ci colpisce una cortina di neve accecante. Vortica sulla strada come una nebbia bassa, nascondendo buche e lastre di ghiaccio, mentre il motore tossisce e ruggisce.

Jurij smette di parlare quando i fiocchi si infittiscono. Il fascio del faro antinebbia li inghiotte in un imbuto di luce argentata. Sul fare dell’alba ci fermiamo con grande stridore di freni su un passo, mentre la tempesta ulula e spazza la coltre del monte più sopra, sollevando un turbinio di polvere. Aspettiamo che trapeli la pallida luce del mattino, le. lepri artiche vengono a cercare rifugio vicino alle ruote. Jurij si limita a dire: « Passerà! » Ha una faccia tranquilla e leale. Non sorride mai. I capelli e i baffi biondicci e la pelle giallastra sono tipicamente russi.

Dopo un po’ comincia a scendere lentamente nella valle incontro all’alba, e la neve si assottiglia e cessa. Di fronte a noi si intravedono le montagne, non più arrotondate ma fragili e unidimensionali, come venature di foglie giganti appoggiate sul cielo. Cumuli di scorie si ammucchiano lungo il fiume e di tanto in tanto si vedono spuntare le casupole dei cercatori d’oro, linde, con i muri bianchi e le finestre che occhieggiano. Più sotto, i meandri immobili formano estuari luminescenti sopra la pianura. « Questa regione si sta svuotando. Chi ci lavorava si trasferisce a Magadan ». Jurij ha ancora un posto di lavoro, ma non ha nulla da fare e ha dieci mesi di salari arretrati. Non sa che cosa farà. Ha quasi trent’anni. « E una volta a Magadan, si spostano a occidente».

A un tratto abbandona la strada maestra e imbocca una via laterale che quasi non si vede. Di fronte a noi la neve che ha ripreso a cadere scende a ondate verso le montagne. Dice: « Questo era il posto più terribile, Butugychag. Non c’era nulla di peggio. Venticinquemila prigionieri lavoravano qui nelle miniere: politici e delinquenti insieme. Non sapevano delle radiazioni. Neppure le guardie lo sapevano». La neve arriva già ai mozzi delle ruote e avanziamo a singhiozzo, cozzando e affondando come se lo chàssis fosse elastico. I solchi lasciati dalla Land Rover di un cacciatore che ci ha preceduto si stanno riempiendo di neve. « Se ce l’ha fatta lui, ce la faremo anche noi». A un certo punto la lastra di ghiaccio che ricopre un ruscello cede sotto il nostro peso e affondiamo nell’acqua fino alle portiere, ma riusciamo a trascinarci fuori e a raggiungere la sponda opposta. «A questo servono le macchine! Oh, le strade russe! » Per quindici chilometri avanziamo a tentoni tra mucchi di neve, sui ponticelli in rovina dei minatori, lungo il letto asciutto di un ruscello. Uno stormo di pernici bianche frulla all’improvviso davanti alle ruote, le ali bordate di nero si tuffano tra i cespugli come cacciabombardieri.

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