Vorkuta - terra di Gulag

All’interno dei campi, la moltitudine di detenuti politici senza colpe veniva tiranneggiata dai criminali imprigionati con loro, che erano uniti in una specie di scellerata fratellanza. Questi blatnye vivevano secondo le proprie leggi brutali, compivano esecuzioni, si accaparravano qualsiasi privilegio disponibile. E l’amn,inistrazione del campo li ignorava o li usava. Del resto le guardie stesse erano vulnerabili quanto i prigionieri: una disattenzione, un incauto gesto di misericordia, e rischiavano la fucilazione. Regnava un’atmosfera di brutale indifferenza, più che di sadismo. Stremati dal lavoro, dal freddo pungente, e mezzi morti di fame, i forzati erano ridotti a una massa animalesca. Con una razione di cibo giornaliera che comprendeva farinata d’avena, un etto di pesce e poche gocce d’olio, avevano un carico di lavoro spesso insostenibile. Morivano di tifo, di tubercolosi, di polmonite, o crepavano di infarto mentre trainavano i carrelli di carbone fuori dalla miniera.

A volte i compagni nascondevano i cadaveri in modo da poter riscuotere le loro razioni; ma nel giro di tre giorni il fetore dei corpi ne tradiva la presenza. « ... E d’inverno basta che fai un buco nel ghiaccio, getti la lenza, e vengono su temoli a dozzine! » Vasil pregustava già la sua prossima spedizione. « Più tardi arrivano i pesci grossi: i salmoni. Nel luglio dello scorso anno ero negli Stati Uniti, non pensavo a niente, quand’ecco che la canna quasi mi sfugge di mano. Il bestione pesava cinquanta chili, giuro — è il peso di mia moglie! — e luccicava tutto, e mi guardava... » Da entrambi i lati era un susseguirsi continuo: miniera-cimitero-campo-miniera-cimitero.

Tutto in rovina. A volte un villaggio circondava le baracche dove pochi ex prigionieri o i loro discendenti si erano fermati, non sapendo dove altro andare. Ma la maggior parte dei luoghi dell’orrore rimanevano solo nel ricordo, come la fabbrica di mattoni dove nel 1937 lo spietato comandante Kasketin fece giustiziare 1300 prigionieri politici. (Prima venne insignito dell’Ordine di Lenin, e poi fucilato). A ricordarli è rimasto un obelisco grigio.

Il campo punitivo di Cernentnyj Zavod era ridotto a un insieme disordinato di squallide case popolari e a una ciminiera che vomitava fumo. Donne pallide aspettavano fuori dai negozi o sedevano intorno a un campo da pallavolo deserto. Ancora cinque anni prima, gli scioperi dei minatori potevano far tremare il Cremlino; ma ora anche se le paghe erano in arretrato di sei mesi, mi raccontò Vasil, le squadre, seppure a ranghi ridotti, continuavano ad andare al lavoro. Poi raggiungemmo il guscio della miniera 17. E qui che nel 1943 fu creato il primo dei katorgi, i campi di sterminio di Vorkuta. Nel giro di un anno, dei trenta campi di Vorkuta tredici divennero katorgi: il loro obiettivo era quello di liquidare i reclusi.

In un inverno in cui la temperatura precipitava a quaranta gradi sotto zero, e ululavano le tempeste di neve, i katorzane vivevano in tende con un fondo di assi leggere cosparse di segatura, poggiate su un suolo di permafrost muscoso. Lavoravano dodici ore al giorno, senza tregua, trainando carrelli di carbone: nel giro di tre settimane erano distrutti. Uno dei rari sopravvissuti li descrisse come degli automi con le pallide facce ghiacciate che stillavano lacrime fredde. Mangiavano in silenzio, addossati gli uni agli altri, senza alzare lo sguardo. Alcune squadre di lavoro si sfiancavano per ottenere un po’ di cibo extra, ma lo sforzo era eccessivo, e il supplemento troppo scarso.

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