Vorkuta - terra di Gulag

Una ragazzina è ferma nella piazza Lenin quasi deserta. Avrà sì e no quindici anni, ma la gonna nera le scende appena sotto i fianchi, e le calze si fermano a metà delle cosce livide. Quanti giorni all’anno ci si può vestire così, a Vorkuta? Ha un aspetto pateticamente stanco e giovane; forse è la sua prima volta. I lavori sono duri, a Vorkuta. Preme il palmo di una mano contro la guancia, quasi volesse negare la sua presenza lì. Poi un uomo di mezz’età le si avvicina, dicendole qualcosa. Esitante, lei lo segue lungo il marciapiede. Le dita continuano a scivolarle dietro per abbassare la gonna, inutilmente. L’uomo indica un’automobile dietro la statua di Lenin, e lei vi sale su, incerta. La sua mano copre ormai mezza faccia. Il mio albergo era enorme, semi diroccato, nonché l’unico rimasto: un monumento a Stalin, nelle cui sale i miei passi rimbombavano. Quattro poliziotti se ne stavano in un ufficio al di là della hall, con lo sguardo impietrito, e alcuni portieri ciondolavano ai loro banconi. Nell’antro della sala da pranzo deserta, un altoparlante diffondeva musica da ballo.

Camminavo senza meta per le strade, con il vago sospetto di essere seguito. I passanti dal viso giallastro che incontravo sui marciapiedi sembravano capaci di qualsiasi azione. C’era una strana quiete. Una popolazione di anziani sedeva indifferente nelle piazze aride; interrogati, mi rispondevano con frasi slegate e mezzi sorrisi. Erano lettoni e ucraini, esiliati molto tempo fa, che prendevano aria con reticente sorpresa. Perché faceva caldo, e c’era una densa quiete estiva. Alle otto di sera il sole era ancora alto, e alle undici il cielo manteneva una luce limpida, rifratta, che pareva illuminare la città attraverso una garza nera. Ma solo una finestra su dieci era illuminata.

Smarritomi nella periferia, ebbi, la fantasia che il passato stesse colando come una materia viscosa e irriconciliabile, a riprendere possesso delle stanze abbandonate, a rivendicare le fabbriche. I morti di questa città erano di gran lunga più numerosi dei vivi. Avevano costruito la città in catene, e adesso riposavano nel suo sottosuolo. Eppure a mezzanotte c’era chi portava ancora a spasso il suo bastardino per le strade, o leggeva il giornale.

Il mattino dopo trovai un allegro ucraino disposto a farmi fare il giro delle miniere attraverso la strada circolare lunga trenta chilometri. Vorkuta era una città meravigliosa, sosteneva Vasil, perché era vicina agli Urali, e si poteva andare a caccia. Viveva qui da trent’anni, e a suo dire aveva avuto una vita splendida. « Dovresti vedere i fiumi e i laghi. Sono centinaia! E pieni di pesci! Basta allungare un po’ di soldi ai geologi o ai soldati, e loro ti accompagnano dove vuoi con la jeep. In quanto a questo » liquidò Vorkuta con il dorso della mano, « tutto migliorerà. Adesso le cose vanno male, ma presto... » La città stava scivolando via, e davanti a noi si spiegava una spettrale terra di nessuno.

Per chilometri e chilometri le praterie venivano squassate dalle cicatrici lasciate da edifici scomparsi; pareva che una guerra dimenticata avesse cosparso la superficie di rottami metallici e rovine. Tutti i colori erano slavati: persino il cielo sfoggiava un bianco e nero temporalesco. Un groviglio di piloni e pali telegrafici si districava per metà del paesaggio, e sotto di essi strisciavano enormi tubi dell’acqua calda, il cui rivestimento colava sull’erba scolorita. La nostra auto sobbalzava sulle buche. Eravamo completamente soli. Vasil prese a raccontarmi le sue avventure di caccia e di pesca, e mentre sognava salmoni e volpi artiche la sua guida si faceva più imprudente. Davanti a noi, l’orizzonte era gonfio di cumuli di scorie e di ciminiere. Intorno scorrevano inquinati affluenti del fiume Vorkuta.

A volte non riuscivo a capire se una miniera fosse in funzione o abbandonata. Passavamo davanti a rovine con gli scivoli rotti e le ciminiere spente, senza uomini o carrelli in vista; poi la puleggia cominciava a girare. Non poteva essere che il vento. E invece no! In profondità, sotto quegli impianti, la terra brulicava di uomini. Eppure in superficie vagavamo tra i fantasmi.

Su ogni miniera gravavano le tracce di un campo di prigionia o di un cimitero. Il terreno era increspato da terrazzi, baracche crollate, torri d’osservazione marce. A volte abbandonavo Vasil e me ne andavo in giro da solo. Ma l’immaginazione mi veniva meno. Avrei voluto lasciarmi sconvolgere dalla pietà, e invece provavo solo freddo disgusto e smarrimento, Il suolo sotto i miei piedi era come malato. Avevo paura di quello che potevo calpestare.

Camminavo sui suoi corrugamenti in punta di piedi. Cercai di ricordare un individuo qualsiasi morto qui: un Mandelìtam, un Babel’. Avrebbe potuto suscitare un senso acuto di perdita dentro di me. Ma non ne conoscevo.

Era solo una nazione di morti senza nome che non potevo separare dai loro persecutori. Questi campi erano entità autonome. Evolvevano come un perverso riflesso del mondo esterno. Dopo il patto tra Hitler e Stalin del 1939, alla massa di detenuti russi e ucraini si unirono decine di migliaia di polacchi, e nel 1940 i soldati russi ricatturati ai tedeschi furono incarcerati qui come traditori. Con l’annessione degli stati baltici arrivarono i lettoni, i lituani e gli estoni — i quali avevano combattuto indifferentemente Hitler e Stalin — e alla fine della guerra il mosaico nazionale di Vorkuta comprendeva tedeschi, giapponesi, nazionalisti cinesi, ebrei sopravvissuti all’Olocausto, persiani, diversi francesi e americani, persino un pastore tibetano smarritosi oltre il confine con la Mongolia.

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