La vita nei lager comunisti

Per non aggiungere a tutto questo lo scorbuto quasi generalizzato che assumeva, come ai tempi di Bering, le minacciose proporzioni di una dilagante epidemia con migliaia di vittime; e la dissenteria causata dal fatto che mangiavamo tutto ciò che ci capitava sottomano, pensando solo a riempirci lo stomaco dolorosamente roso dalla fame, raccogliendo, per placarla, gli avanzi di cucina da mucchi di immondizie fittamente coperti di mosche; e la pellagra, la malattia degli indigenti, il deperimento totale, in seguito alla quale la pelle si sfila come un guanto dalle palme delle mani e dalle piante dei piedi, e si desquama da tutto il corpo in grossi petali tondeggianti simili a impronte digitali; e, infine, la ben nota distrofia alimentare, la malattia degli affamati che soltanto dopo l’assedio di Leningrado hanno cominciato a chiamare con il suo vero nome. Fino ad allora aveva ricevuto varie denominazioni Rfi, le misteriose iniziali che comparivano nelle cartelle cliniche, e stavano per "esaurimento fisico acuto", o, più frequentemente poliavitamiosi, un affascinante nome latino che indica la carenza di alcune vitamine nell’organismo umano e tranquillizza i medici, che hanno così trovato una formula latina appropriata e legale per designare sempre la stessa cosa — la fame.

Se si aggiungono le baracche umide e prive di riscaldamento, all’interno delle quali spessi strati di ghiaccio gelavano dentro ogni fessura come se stesse gocciolando in un angolo un’enorme candela di stearina... Vestiti scadenti e razioni da fame, congelamenti - e un congelamento significa sofferenze, se non amputazioni, che durano per sempre. Se si pensa alla quantità di influenze, polmoniti, raffreddori d’ogni tipo, tubercolosi che dovevano manifestarsi e si manifestavano tra quelle alture paludose, deleterie per i cardiopatici. Se si ricordano le epidemie di automutilazioni, di autoamputazioni. Se si tiene inoltre nel debito conto l’immensa prostrazione morale e l’assenza di qualsivoglia speranza, si vede facilmente fino a qual punto l’aria aperta fosse per la salute dell’uomo più pericolosa della prigione.

I racconti di Kolyma
I racconti di Kolyma
Ecco perché non c’è bisogno di polemizzare con Dostoevskij circa i vantaggi del «lavoro» forzato a confronto dell’ozio carcerario e dei meriti dell’«aria aperta». Dostoevskij viveva in altri tempi e la galera di allora non aveva ancora attinto i fastigi di cui qui si racconta. Era difficile figurarsi cose del genere in anticipo, poiché tutto quello che è accaduto in quei luoghi è troppo inusuale, troppo inverosimile, e il povero cervello umano non arriva a immaginarsi concretamente la vita laggiù, della quale il nostro compagno di prigione, il mullah tataro, aveva una sia pur vaga e approssimativa cognizione.

Varlam Shalamov - I Racconti della Kolyma Volume primo pagine 103 - 114. Edizione Einaudi. Traduzione di Sergio Rapetti.

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