Al lavoro nei gulag comunisti con 50 gradi sotto zero

Giorno e notte ristagnava una nebbia bianca così fitta che non si poteva distinguere un uomo a due passi. Da soli, comunque, non avevamo occasione di allontanarci molto. Le poche destinazioni - la mensa, l'infermeria, il posto di guardia - le trovavamo non si sa come, grazie a una specie di istinto acquisito, affine a quel senso dell'orientamento che sviluppato in modo completo negli animali, si risveglia in determinate circostanze anche nell'uomo.

A noi lavoratori non mostravano mai il termometro; del resto era inutile visto che con qualsiasi temperatura dovevamo comunque andare a lavorare. Inoltre i veterani della galera, anche senza termometro, potevano stabilire con precisione quasi assoluta quanti gradi sotto zero ci fossero: se c’è una nebbia gelata, fuori fa meno quaranta; se l’aria esce con rumore dal naso, ma non si fa ancora fatica a respirare, vuol dire che siamo a meno quarantacinque; se la respirazione è rumorosa e si avverte affanno, allora meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque, lo sputo gela in volo. Ed erano già due settimane che gli sputi gelavano in volo.

Ogni mattina, Potasnikov si svegliava con una speranza: si era attenuato il gelo? Dall’esperienza dell’inverno precedente sapeva che, per quanto bassa fosse la temperatura, era sufficiente una sua variazione improvvisa, un contrasto netto per provare una sensazione di calore. Anche se la temperatura fosse risalita solo fino a quaranta-quarantacinque gradi, per un paio di giorni avrebbero sentito caldo; e fare progetti al di là di quei due giorni era del tutto insensato.

Ma il gelo non si attenuava, e Potasnikov si rendeva conto che non avrebbe potuto resistere ancora molto. La colazione gli bastava per un’ora di lavoro al massimo, poi arrivava la stanchezza, il gelo gli trapassava il corpo fino alle ossa e quel modo di dire popolare non era affatto una metafora. Non poteva fare altro che agitare il più possibile l’attrezzo che stava usando e saltellare da un piede all’altro per non congelare, questo fino all’ora di pranzo. Il pasto caldo – la famigerata juska acquosa e due cucchiaiate di pappa, la kasa – non lo rimetteva in forze ma almeno lo riscaldava. E di nuovo aveva forze bastanti per non più di un’ora di lavoro, dopo di che Potasnikov desiderava soltanto una cosa: riscaldarsi, oppure abbandonarsi lungo disteso sulle aguzze pietre ghiacciate e morire. La giornata in qualche modo finiva e dopo il pasto serale, bevuta l’acqua calda con il pane – nessuno mangiava il pane alla mensa con la minestra, se lo portavano tutti nella baracca – Potasnikov si metteva subito a letto.

Naturalmente lui dormiva su uno dei tavolacci di sopra: da basso faceva freddo come in una cantina ghiacciata e quelli che avevano i posti di sotto passavano metà della notte in piedi vicino alla stufa, facendo a turno per stringersi contro di essa con entrambe le braccia: era appena tiepida. Non c’era mai legna sufficiente: bisognava procurarsela, a quattro chilometri di distanza, dopo il lavoro, e tutti cercavano di sottrarsi in qualsiasi modo a questa incombenza. Di sopra faceva più caldo, ma naturalmente anche lì tutti dormivano con addosso gli stessi indumenti che indossavano di giorno per andare a lavorare: berretti, giacconi, casacche, pantaloni imbottiti. Di sopra faceva più caldo, ma anche lì bastava una notte perché il gelo incollasse i capelli al cuscino.

Potasnikov sentiva le sue forze diminuire di giorno in giorno. Lui, un uomo di trent’anni, faceva ormai fatica sia a issarsi sui tavolacci superiori, sia a ridiscenderne. Il suo vicino di letto era morto il giorno prima, era morto così, non si era svegliato, e nessuno si era preoccupato di sapere di cosa fosse morto, come se la causa potesse essere una sola, quella che tutti conoscevamo bene. Il piantone della baracca era contento che fosse morto di mattina e non di sera: l’approvvigionamento giornaliero del defunto sarebbe andato a lui. Non era un segreto, e Potasnikov aveva preso il coraggio a quattro mani, gli si era avvicinato: "Dammene una crosta", ma l’altro l’aveva accolto con una serie di violente ingiurie, quali poteva proferire solo un uomo debole diventato forte, il quale sa che le sue ingiurie resteranno impunite. Solo in circostanze eccezionali accade che un debole ingiuri un forte, ed è il coraggio della disperazione. Potasnikov non aveva replicato e si era fatto da parte. [...]

Non faceva una colpa a nessuno per tanta indifferenza. Aveva capito per tempo da dove venisse quell’ottusità spirituale, quel freddo dell’anima. Il gelo, quello stesso gelo che trasformava in ghiaccio uno sputo prima che toccasse terra, era penetrato anche nelle anime degli uomini. Se potevano congelarsi le ossa, se poteva congelarsi e intorpidirsi il cervello, altrettanto poteva accadre anche all’anima. Nella morsa del gelo non si poteva pensare a niente. Ed era tutto molto semplice. Con il freddo e la fame il cervello veniva alimentato in modo insufficiente e le cellule cerebrali deperivano: un evidente processo fisico che chissà se era reversibile, come si dice in medicina, al pari di un congelamento, o provocava un danno definitivo. Così l’anima: si era congelata, rattrappita e sarebbe forse rimasta tale per sempre. In passato Potasnikov aveva avuto spesso di questi pensieri, ma ora non gli restava nient’altro che il desiderio di resistere, di vedere la fine di quel gelo restando vivo.

[1954]

(V. Salamov, I racconti di Kolyma , Torino, Einaudi, 1999, pp. 17-19. Traduzione di S. Rapetti)

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