L’Unione Europea ha risposto negativamente alla richie­sta di sei Paesi membri usciti dal passato comunista di equi­parare il negazionismo dei crimini staliniani a quello (che è punito per legge) dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Repubblica Ceca, Romania, Ungheria, Bulgaria, Li­t­uania e Lettonia hanno conosciuto sulla loro pelle la bruta­lità indicibile del comunismo sovietico: ma per la Commis­sione Europea dovranno rimanere crimini di Serie B.

La storia riletta con l'occhio della legge non è mai un bell'affare e il comparativismo criminal-giuridico ancora meno. Nei giorni in cui l'Unione Europea dibatteva e poi respingeva l'equiparazione fra la Shoah e le vittime dello stalinismo, e quindi fra nazismo e comunismo, mi sono andato a rileggere quel bel libro che si chiama Koba il Terribile (Einaudi ed.) scritto da Martin Amis qualche anno fa. Io non credo alla criminalizzazione della politica, disprezzo gli studi psicanalitici travestiti da saggi storici e, così come non mi ha mai convinto una lettura psichiatrica del nazionalsocialismo, mi lascia indifferente un'analisi del leninismo e dello stalinismo condotta con i medesimi criteri. Ma questo libro è così particolare da meritare un cambiamento di vedute. Amis non è uno storico, è un romanziere inglese, figlio di quel Kingsley Amis che fu un acceso comunista negli anni Trenta-Quaranta e un fervido anticomunista nei due decenni successivi, un comunismo e un anticomunismo i suoi tipicamente anglosassoni, ovvero squisitamente intellettuale nel primo caso, assolutamente empirico e pratico nel secondo.

Nato nel 1949, Martin Amis è stato in qualche modo vaccinato dall'esempio paterno, ma l'avere la sua giovinezza coinciso con la contestazione e l'effimero rifiorire del marxismo come movimento libertario e terzomondista, ne fa un testimone attendibile della sua epoca e del fascino che questa dottrina ancora esercitò in quegli anni. Cosa c'è di nuovo in Koba il Terribile che giustifica il parlarne a chi, come i lettori di questo giornale, non ha certo aspettato la caduta del Muro di Berlino per fare i conti con questa utopia negativa del XX secolo? C'è che Amis coglie un elemento fondamentale per spiegare il successo e l'appeal che per quasi sessant'anni accompagnò il comunismo in Russia e fuori: l'esperimento in corpore vili di un'avanguardia intellettuale, una setta di rivoluzionari di professione, in guerra contro un'intera società. Quando per giustificare la superiorità «morale» del comunismo nei confronti del nazionalsocialismo si dice che, a differenza di quest'ultimo, non ci fu l'eliminazione, razzialmente sistematica, di un'etnia, ci si dimentica di aggiungere che fu qualcosa di peggio: l'eliminazione forzosa di tutto ciò che non era in sintonia con l'ideologia professata. Il comunismo in Russia non eliminò gli ebrei in quanto tali, eliminò l'intera Russia: gli intellettuali, cioè in realtà i professionisti, ingegneri, professori, imprenditori, i proprietari terrieri e i contadini, i commercianti, tutti quelli che, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, potevano essere considerati, o si rivelavano, ostili e/o estranei al nuovo corso. Fu un'eliminazione ottenuta con la violenza, la delazione, l'inganno e resa altresì possibile dalla più assoluta mancanza di pietà: non c'erano legami familiari, amicali, di ceto o di costume a cui potersi richiamare, c'era la sottomissione totale a un sistema di pensiero e di potere, alla instaurazione della società comunista in terra. Alla solita, stupida obiezione del fine che giustifica i mezzi, oppure del fine buono tradito dal mezzo cattivo, Amis risponde lucidamente: «Non è affatto chiaro come l'idea del paradiso-via-inferno abbia potuto sopravvivere a un solo istante di riflessione. Proviamo a immaginare che il “paradiso” promesso da Trockij sorgesse improvvisamente dal mucchio di macerie del 1921.

Sapendo che per crearlo erano state sacrificate milioni di vite, chi avrebbe voluto abitarlo? Un paradiso a quel prezzo non è un paradiso. I mezzi determinano i fini, è stato detto, ma in Urss i mezzi sono stati l'unica cosa che si sia stati in grado di raggiungere. Esiste una contraddizione dentro la contraddizione: l'utopista militante, il perfettibilizzatore, nutre già in partenza una risentita rabbia verso l'evidenza della imperfettibilità umana. Nadezda Mandel'stam parla della “satanica” arroganza dei bolscevichi. La loro è anche un'infernale insicurezza e ostilità, un'infernale disperazione». Questo spiega anche l'altro elemento che caratterizza il totalitarismo marxista-leninista. Il fascismo e il nazionalsocialismo furono spietati nei confronti dei loro avversari, ma la loro spietatezza coincideva con l'annientamento fisico.

Qui, invece, sempre, comunque e prima dell'eliminazione fisica c'è l'eliminazione psicologica. Non ci si accontenta del corpo, si vuole l'anima. Le «confessioni», i «processi» miravano a questo, al riconoscimento dell'errore, alla espiazione e alla riaffermazione della giustezza della causa: non solo io sono colpevole, ma mi faccio schifo in quanto tale ed esigo il castigo che la mia colpevolezza comporta... La costruzione di un sistema del genere può reggersi solo se il grado di spietatezza è totale e se tutti ne sono consapevoli. Ed è questa militarizzazione della vita pubblica, questa trasformazione di ciascuno dei suoi membri in combattente e custode dell'ortodossia, e quindi spia, delatore, tutti traditori di tutti, che permette negli anni la durata del regime. Una volta che essa comincia a venir meno, via via che la tensione si allenta, perché inumana, non in grado di mantenersi per più di una generazione, il risultato è la crisi e poi la dissoluzione del regime stesso. Come ha scritto Solzhenitsyn, alla base della lunga sopravvivenza del regime c'è «la sua forza disumana, inimmaginabile nell'Occidente».

Lo storico Robert Conquest ha spiegato che «la realtà dell'attività di Stalin spesso non veniva creduta proprio perché appariva incredibile. Il suo stile si fondava sul fare ciò che in precedenza era stato considerato moralmente o fisicamente inconcepibile». Il libro di Amis racconta proprio questo: la creazione intellettuale di un «uomo nuovo» inumano, privo cioè di quegli elementi del vivere civile comunemente intesi, una macchina programmata per una società ferrea, subordinata in tutto e per tutto all'affermazione di un'idea, la società degli eguali militarmente intesa, ovvero un gigantesco, lugubre cimitero. È l'incredibilità dell'esperimento che aiuta a spiegare, non a scusare, il plauso, anch'esso intellettuale, che in Occidente lo accompagnò. Il 7 aprile 1935 un decreto, pubblicato sulla prima pagina della Pravda, stabilì che sopra i dodici anni si era passibili «di tutte le misure della giustizia penale», inclusa la pena di morte. Era una legge che aveva due obiettivi, nota Amis: «Uno era sociale, accelerare l'eliminazione della moltitudine di orfani inselvatichiti e allo sbando creati dal regime. L'altro era politico: applicare una barbara forma di pressione sui vecchi oppositori, Kamenev, Zinov'ev, che avevano figli di età idonea; presto questi uomini sarebbero caduti e con loro anche le loro famiglie. La legge del 7 aprile 1935 era la cristallizzazione dello stalinismo “maturo”. Cercate di immaginare la massa del guantone con cui Stalin vi colpiva in faccia, immaginate la massa».

Bene, il Partito comunista francese dell'epoca, dovendo commentare quella legge, sostenne che era giusta. Sotto il socialismo, infatti, i bambini crescevano molto più in fretta... È un sublime umorismo involontario, e strappa una risata: ma dietro questa risata vi sono, come ricorda il sottotitolo di Koba il Terribile, «venti milioni di morti»... Se siano o no comparabili non ce lo faremo dire dalla Ue.

http://www.ilgiornale.it/news/che-vergogna-l-europa-i-crimini-staliniani-pesano-meno-shoah.html

Stenio Solinas - Sab, 25/12/2010 - Il Giornale

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