Nella cultura occidentale si sta consumando qualcosa di distruttivo per l’Europa stessa. È la deriva verso il più bieco relativismo, con le nostre libertà in pericolo - Il Foglio 5 feb 2017 - Sergio Belardinelli

Della crisi dell’occidente si parla ormai da anni. Ne vediamo soprattutto il lato economico, politico e religioso, ma si tratta di una crisi molto più profonda, che interessa il cuore stesso della cultura occidentale. L’occidente e l’Europa in particolare hanno smarrito se stessi; hanno smarrito l’ideale antropologico universale, che ha generato a tutti i livelli quella che potremmo definire l’identità occidentale: ecco il senso più vero della crisi dell’occidente, che si riverbera inevitabilmente anche sulle nostre libertà individuali, rendendole sempre più difficili. Mai come oggi l’Europa e il mondo intero avrebbero bisogno dell’anima europea, delle pratiche politiche, istituzionali, civili generate dall’idea dell’inviolabile dignità e libertà di tutti gli uomini, non fosse altro per sfruttare a pieno le enormi potenzialità del tempo presente, e mai come oggi l’Europa sembra invece alla deriva.

La mia idea, detta molto schematicamente, è che nella cultura europea si sta di nuovo consumando qualcosa di distruttivo per l’Europa stessa, qualcosa che fa pensare ad altre crisi con le quali l’Europa ha già dovuto fare i conti: la “tragedia della cultura” di cui parlava Simmel; la civiltà delle macchine che distrugge anche le macchine, secondo l’immagine di Bernanos; l’utile che, diventando il valore sommo, finisce per perdere il senso stesso dell’utilità; la razionalità ridotta a “razionalità strumentale”; la sensibilità per il valore intrinseco in tutte le culture che, scardinata da qualsiasi principio universalistico (la ragione, la natura, la verità), finisce per scadere nel più bieco relativismo culturale. E si potrebbe continuare. In tutte queste figure è riscontrabile comunque la percezione di una forma culturalmente interna all’Europa, ma distruttiva dei suoi princìpi ordinativi fondamentali. Per intenderci, la razionalità strumentale assunta in modo esclusivo distrugge la razionalità; il soggettivismo moderno declinato in modo relativistico distrugge il soggetto e le sue libertà.

Ma per fortuna, e questo mi sembra particolarmente importante, dietro queste forme di autoannientamento della cultura europea, alle quali potremmo aggiungere quelle odierne del funzionalismo, del nichilismo, dello statalismo, della biopolitica, vediamo riemergere ogni volta in modo più o meno faticoso, ma comunque evidente, il lato buono di questa cultura, diciamo pure lo spirito greco-ebraico-cristiano e illuminista dell’Europa, la sua passione per la dignità e le libertà individuali; uno spirito che certamente ha contribuito a produrre anche le forme della propria estraniazione (la libertà, del resto, è sempre rischiosa), ma che non è riducibile a queste, anzi ne rappresenta l’unico superamento veramente “umano”.

A differenza di altre culture l’Europa non può permettersi il lusso di andare contro l’uomo, pretendendo di rimanere fedele a se stessa. Egoismo, sete di potere, fanatismo possono certo essere nascosti e dissimulati dietro parole altisonanti che richiamano la civiltà, la ragione, la libertà o il vero Dio, ma alla fine saranno proprio queste parole a smascherare tutte le menzogne. L’universalismo, la dignità, la libertà, la bellezza, la verità, la stessa idea di Dio, che costituiscono intimamente la cultura europea, possono certo risuonare in determinate epoche storiche come stantie ripetizioni; possono certo diventare aggressivi o sclerotizzarsi in tante copie di un originale che non è più capace “di destare un’effettiva comprensione”, come direbbe Husserl; possono entrare in crisi, magari assopirsi, ma mai morire del tutto. Nessuna crisi della cultura europea potrà essere l’ultima. Come dice Maria Zambrano, “l’Europa è forse l’unica cosa nella storia che non può morire del tutto. L’unica cosa che può risuscitare”. E forse è questo, aggiungo io, il vero motivo per cui, a rigore, l’Europa non ha un’identità geografica né politica, ma rappresenta soprattutto una realtà spirituale che, in quanto tale, non è riconducibile in modo esclusivo ed esaustivo a nessuna realtà geopolitica. Del resto guai se lo fosse; sarebbe come dire, cosa che purtroppo è accaduta nella storia, che l’universale e l’assoluto sono diventati possesso privilegiato di alcuni e magari, peggio ancora, strumenti di conquista.

Occorre dunque essere molto prudenti quando si parla di crisi irreversibile dell’Europa e dell’occidente. E’ possibile che lo spirito dell’Europa possa svilupparsi al di fuori delle nazioni occidentali meglio di quanto faccia al loro interno. Si può persino supporre, come fanno alcune élite cattoliche, che tale spirito sia oggi presente più in America latina o in Africa che in Europa, cosa di cui dubito assai. Ma di una cosa possiamo essere certi: se muore la cultura europea muore l’uomo europeo. E se muore l’uomo europeo, muoiono inevitabilmente anche la sua dignità e le sue libertà individuali. Se l’Europa è essenzialmente romana, latina, diciamo pure, cristiana, nel senso in cui ne parla Rémi Brague nel suo bellissimo libro, Europe, la voie romaine, intitolato nell’edizione italiana, Il futuro dell’occidente, ossia come strutturale consapevolezza “di chi si sa chiamato a rinnovare l’antico” e quindi aperto su un futuro sempre nuovo e imprevedibile, è certo che abbiamo a che fare, sono sempre parole di Rémi Brague, con “una nozione variabile”, con una identità, strutturalmente “eccentrica”, quindi il contrario di un contenuto fissato magari una volta per tutte, ma anche il contrario di quella sorta di indifferenza ai contenuti che sembra emergere da certe letture che vorrebbero fare dell’Europa e dell’occidente una sorta di melassa culturale, dove i discorsi, i giochi linguistici sono tanti e tutti ugualmente legittimi e ugualmente consistenti. La realtà spirituale dell’Europa non è un gioco linguistico tra i tanti. Esiste un nucleo dell’identità europea che è greco, romano, ebraico e cristiano, nel quale sono custoditi i grandi tesori dell’inviolabile dignità e libertà di ogni uomo, il quale è semplicemente universale. E’ da questo nucleo che trae origine la parte buona della cultura europea, quella parte che implica la consapevolezza di venire dopo i greci, dopo gli ebrei e dopo Gesù Cristo e di avere come compito quello di portare la loro novità, che possediamo solo a stento, in modo fragile e provvisorio, a un mondo dove ci sarà sempre una qualche forma di resistenza. E’ questo “il mito della nostra esistenza europea”, come lo chiama Hugo von Hofmannsthal in uno scritto del 1926. Un mito che “non è una riserva accumulata, che potrebbe invecchiare, ma un mondo spirituale pregno di vita dentro noi stessi: il nostro vero oriente interiore, il nostro mistero incorruttibile e palese. E’ un magnifico tutto: al tempo stesso fiume che ci porta e fonte verginale che sgorga sempre pura. Niente nel suo ambito è tanto vecchio da non poter risorgere domani come qualcosa di nuovo, raggiante di giovinezza”. Altro che relativismo culturale o xenofobia! Abbiamo piuttosto a che fare con una realtà spirituale che, in forza del principio antropologico (e teologico) che la permea, non è rigida o escludente, bensì strutturalmente aperta alla novità e alla libertà. Al pari dell’uomo europeo, il quale, pur essendo una realtà unica e irripetibile, geneticamente e culturalmente ben determinata, trascende sempre se stesso e le condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza, allo stesso modo la cultura europea è sempre proiettata oltre se stessa. Nella cultura europea identità e libertà sono un tutt’uno. In virtù della trascendenza dell’uomo, l’identità si esprime come libertà e la libertà si esprime come consapevolezza di un legame identitario. Ma oggi è proprio questo aspetto di trascendenza che sembra essersi indebolito, indebolendo così anche le nostre libertà individuali.

D’altra parte che significato possono avere la trascendenza dell’uomo e la sua libertà, se l’uomo è soltanto il riflesso del suo ambiente naturale e sociale o, peggio ancora, l’ultimo stadio di sviluppo di antiche comunità batteriche? Che significato può avere la libertà, se le cause dell’odierna crisi economica, persino in Italia, un paese che, per il suo statalismo, assomiglia più alla vecchia Unione sovietica che a una democrazia liberale, vengono imputate al liberismo? Che significato può avere la libertà, se, in suo nome, i desideri vengono ormai spacciati per diritti?

Da che mondo è mondo, sia chiaro, la libertà è sempre stata difficile. Sarebbe quindi il colmo se, dopo le ubriacature progressiste, oggi ci mettessimo a cercare riparo nel tepore della decadenza, come fanno tanti Kulturpessimisti ritornati di moda. Dietro ogni crisi della libertà si nasconde spesso un’opportunità che potrebbe farla risorgere e allargare il suo spazio. Tuttavia, come mostrano le domande che ho appena posto, è proprio nel campo delle libertà individuali che si manifesta con più evidenza la crisi dell’occidente. Per una sorta di eterogenesi dei fini, è come se l’enorme estensione dello spazio delle nostre libertà anche ad ambiti ritenuti fino a ieri indisponibili (si pensi alle tecnologie della vita) sia stato pagato con una crescente irrilevanza delle nostre libertà più tradizionali, prime fra tutte la libertà politica e quella economica. Anziché pensare alla libertà di fare “ciò che dobbiamo”, come avrebbe detto Lord Acton, ci siamo abbandonati alla libertà di fare ciò che ci piace; siamo diventati sempre più liberisti sul piano morale e dei diritti individuali e sempre più illiberali, statalisti, su quello politico-economico. Di conseguenza non riusciamo a districarci rispetto alle sfide che abbiamo di fronte, né a vederne le opportunità.

Per farlo, ci vorrebbe una sorta di catarsi intellettuale e morale, un investimento straordinario soprattutto in termini educativi, del quale però non mi sembra che vi sia adeguata consapevolezza. Sono ormai decenni che i nostri sistemi educativi navigano a vista, senza un punto di riferimento preciso. Venuta meno una certa idea di uomo, a partire dalla quale anche l’educazione comprendeva se stessa e dalla quale traeva in ultimo la propria misura, anche in campo educativo non restano che le infinite possibilità di un soggetto che non ha più limiti. Di qui le continue sperimentazioni, ora verso lo spontaneismo (il bambino deve essere lasciato libero di esprimersi secondo i suoi istinti), ora verso il più rigido costruttivismo (il bambino deve essere costruito persino nei suoi sentimenti secondo rigidi processi di socializzazione): questo il brodo di coltura ideale di gran parte della pedagogia contemporanea. Ed è del tutto pleonastico sottolineare quanto poco questo brodo abbia a che fare con una cultura che ami la libertà e quanto invece esso esprima un pernicioso spaesamento antropologico, destinato a indebolire il senso della realtà e a promuovere, anziché la libertà, una sorta di naturale propensione all’astrazione, magari sotto controllo da parte dello stato.

Lo dico con una battuta, ma proprio di questa propensione all’astrazione vivono e si alimentano il terzomondismo, il buonismo, l’antiamericanismo, l’anticapitalismo, lo statalismo, il giustizialismo così di casa dentro le nostre scuole. Abbiamo trasformato l’educazione in una pratica ideologica, come se l’educazione debba servire a diventare buoni cittadini o buoni cattolici. Invece l’educazione non serve a nulla, se non a trovare la nostra strada, a sentirci a casa nel mondo che abitiamo e diventare ciò che siamo: uomini, appunto; persone libere, la cui irripetibile unicità si esprime sempre in un tessuto di relazioni costitutive che reclamano anche i nostri doveri e la nostra responsabilità. Come disse Hannah Arendt, “la scuola deve essere conservatrice per preservare quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo in ogni bambino”. Prima o poi, infatti, per ciascuno di noi arriverà il momento in cui diremo addio ai nostri genitori e ai nostri maestri e incominceremo a camminare da soli, a fare di testa nostra. Ma il come questo avverrà, l’energia e l’autonomia che contrassegneranno il nostro cammino e persino la voglia di rendere migliore il nostro mondo dipenderanno in gran parte proprio da quanto in questo mondo ci siamo sentiti a casa, da quanto cioè ci siamo sentiti “conciliati” con esso, nonostante le sue resistenze ai nostri desideri. Favorire questa “conciliazione” è forse il compito più difficile e più importante di ogni educatore. Veniamo al mondo senza che nessuno ce l’abbia chiesto; qualche volta ciò accade in ambienti familiari, sociali o naturali che certamente non aiutano a pensare che la vita sia un dono: non essere amati, essere maltrattati e umiliati, dover combattere con una natura avversa. Stando alla psicoanalisi, sembra addirittura che la nascita in quanto tale rappresenti per ciascuno di noi un “trauma”, una “rottura”, una “perdita”. Ebbene, come è possibile trascurare tutto questo nella pratica educativa? Come è possibile non vedere nella realtà, nella sua a volte tragica irriducibilità, diciamo pure, resistenza ai nostri desideri, il vero termine di riferimento di ogni relazione educativa, e della stessa libertà?

Realismo e libertà sono compagni di letto. Non dimentichiamolo. E se le nostre pratiche educative sembrano preoccuparsi assai poco sia dell’uno che dell’altro è solo perché ci piace molto parlare di libertà, specialmente la libertà di fare ciò che ci piace, ma molto meno della responsabilità e magari della fatica, dei rischi che essa comporta.

A proposito di rischi, e vengo così all’ultima parte di questo mio intervento, sappiamo tutti come nel dibattito socio-culturale contemporaneo sia diventato ormai un luogo comune rimarcare che viviamo in una società sempre più rischiosa. Eppure il significato di questa espressione non mi sembra affatto scontato. Fa una grande differenza, ad esempio, parlare di società dei rischi con preoccupazione, come se si trattasse di una perdita secca rispetto al mondo delle antiche sicurezze, o parlarne invece come di una costellazione certo ambivalente, ma pur sempre piena di opportunità. Credo anzi che stia proprio qui uno dei punti più controversi e dirimenti della cultura contemporanea, all’affannosa ricerca del giusto equilibrio tra sicurezza e libertà.

Ciò che intendo dire è che in ciò che oggi viene definito come società dei rischi e dell’incertezza è presente un aspetto che di solito non viene adeguatamente tematizzato: la società odierna è rischiosa soprattutto perché un sempre maggior numero di eventi dipende dalle nostre scelte, dalla nostra libertà. Nelle società del passato le cose stavano diversamente. Non che la vita fosse meno rischiosa e meno incerta, ma nel senso che rischi e pericoli raramente potevano essere imputati alle scelte umane. Fa un’enorme differenza morire di polmonite perché non ci sono rimedi o morire di polmonite perché si è deciso di non prendere la penicillina o perché il medico pensava che si trattasse di una banale influenza. Nel primo caso i nostri antenati potevano soltanto imprecare contro Dio o contro il destino avverso; noi invece possiamo imputarlo a noi stessi o al medico. Ebbene è precisamente questa nuova costellazione, frutto di sempre nuove conoscenze, di sempre nuove possibilità di dominare tecnicamente il mondo, a generare la società dei rischi. Crescono i rischi perché cresce in qualche modo la nostra libertà. Curiosamente, però, il crescente potere di controllo che abbiamo via via acquisito sulla realtà ha fatto crescere anche uno spasmodico desiderio di sicurezza. Ci piacciono le comodità, almeno a parole piace anche la libertà, ma non ci piacciono i rischi che essa comporta. Viviamo così una sorta di schizofrenia, la quale, sul piano socio-culturale e politico, alla lunga, potrebbe produrre anche danni molto seri. Soprattutto, mi pare che diventi sempre più insopportabile l’insicurezza in quanto tale; tendiamo cioè a rifiutare ciò che c’è di più ovvio e scontato nella condizione umana. Ieri, per fare un esempio, avremmo considerato una malattia mortale o un terremoto come tragedie, delle quali “incolpare” Dio, la natura o la sorte. Oggi li consideriamo soprattutto come eventi imputabili all’uomo stesso: al medico che non è stato capace di curarci, al politico che non ha investito maggiori risorse nel sistema sanitario o che ha consentito che si costruissero case senza rispettare le norme antisismiche, oppure a coloro che non sono intervenuti tempestivamente con i soccorsi, e via dicendo. Ciò può essere senz’altro comprensibile, visti i mezzi di cui disponiamo sia per fronteggiare le malattie, sia per fronteggiare i terremoti. Ma è anche vero che, a furia di alimentare aspettative di sicurezza, gli uomini e le istituzioni che dovrebbero garantirle vengono sovraccaricati di un compito che, in una società strutturalmente rischiosa, non potranno mai assolvere compiutamente. E a qualcuno potrebbe anche venire in mente di promettere sicurezza in cambio di minore libertà.

Per molti versi è persino curioso che una società come la nostra, nella quale tanto si parla di libertà, sia così poco disponibile ad accettare i rischi e le incertezze che essa comporta. Che si parli di diritti sociali o di immigrazione, tanto per fare qualche esempio, ciò che soprattutto conta sembrerebbe essere la sicurezza. Più ancora quando si parla di economia. In effetti la difficilissima congiuntura economica che stiamo attraversando da quasi un decennio sta rendendo l’incertezza una condizione insopportabile per milioni di persone. Ciò spinge comprensibilmente i governi a prendere sempre di più in mano la situazione. Ma questo non giustifica il silenzio sulla libertà e la responsabilità dei cittadini e delle imprese, né che si approfitti della crisi per gettare discredito sul libero mercato. Come si legge all’inizio dei Pensieri sulla scarsità, un breve saggio polemico scritto da Edmund Burke nel lontano 1795, prendendo lo spunto da un progetto governativo di istituire granai pubblici per fronteggiare l’emergenza provocata dalla scarsità del raccolto agricolo di quell’anno, “l’interferire indiscriminatamente nel commercio dei generi di sussistenza è quanto di più pericoloso ci sia, e assume il suo aspetto peggiore quando gli uomini vi sono più propensi: ossia in tempi di scarsità”.

Sarà anche un vezzo da liberali all’antica, ma, di fronte allo sfascio economico-finanziario in cui ci troviamo, non riesco a togliermi dalla mente questo libretto, scritto oltre due secoli fa. Comprendo, ripeto, che i governi puntino su ingenti investimenti statali per rilanciare l’economia; comprendo persino che si ritorni a parlare di “economia sociale di mercato”, dove chiaramente la parola “sociale” è più importante della parola “mercato”. Tuttavia, da semplice cittadino, per nulla esperto di fenomeni economico-finanziari, noto soprattutto un deficit di cultura e d’informazione. Si parla troppo di sicurezza e troppo poco di rischio. Anziché prendere lo spunto dalla crisi per rilanciare la libertà, la libera iniziativa, l’intraprendenza dei cittadini e delle imprese, vedo diffondersi un pernicioso paternalismo statalista. La stessa informazione sembra farsi semplice cassa di risonanza di questa cultura sempre più sclerotizzata nei suoi impossibili “diritti acquisiti”, e quindi sempre meno capace di attivare dinamiche sociali nuove e impreviste. Si versano lacrime sul duro destino che grava e ancora di più graverà sulle giovani generazioni. Ma nessuno che parli ai giovani di coraggio, di responsabilità, di disponibilità al rischio e all’incertezza più che alla sicurezza, o che raccomandi loro, come auspicava Burke, “pazienza, laboriosità, fatica”. E pensare che queste sono forse le sole condizioni che potrebbero consentire, non soltanto di superare la crisi, ma di sfruttare al meglio le grandi opportunità di una società rischiosa.

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