Sbarco in Normadia
Anche in base ai conti di Bocca un partigiano su due partecipò alla Resistenza solo dal 15 al 25 aprile 1945

“Siamo comunque grati agli americani per averci liberato, col concorso dei partigiani”. Curiosamente in un centro sinistra che spara contro Bush per la sua visita del 4 giugno, è quasi Fausto Bertinotti quello che si mostra più pacato. Ma anche lui usa poi un giro di parole la cui implicazione sembra essere che il lavoro sia stato per lo meno fifty-fifty, se non che addirittura siano stati i partigiani a fare lo sforzo principale. Prima ancora di essere il mito fondante dei partiti della Prima Repubblica, e in particolare del Pci, questo assunto fu fatto proprio dallo stesso Stato italiano, proprio per ottenere condizioni di pace meno gravose. “Anche l’Italia ha vinto”, era il famoso titolo di un numero speciale del 1945 del Mercurio, rivista culturale allora di grande prestigio.

Sui vantaggi che l’Italia aveva ottenuto nel “pagare il biglietto di ritorno nella democrazia” (frase di Edgardo Sogno), scrisse diffusamente Paolo Emilio Taviani, che aveva iniziato la sua carriera politica presiedendo a 32 anni il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) della Liguria, e che oltre a essere un noto pezzo grosso della Dc fu anche a lungo il presidente della Federazione Italiana Volontari della Libertà (Fivl): un’organizzazione di ex-partigiani cattolici, liberali, ex-badogliani, militari e moderati in genere, che in quella particolare “triplice resistenziale” modellatasi sull’esempio di quella sindacale era un po’ l’omologa della Cisl (con la “rossa” Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, come la Cgil; e la Fiap, Federazione Italiana delle Asso- ciazioni Partigiane, fondata da ex-azionisti, e corrispondente alla Uil).

Taviani, dunque, parlava di vari documenti che avevano rivelato progetti degli Alleati per una vera e propria spartizione dell’Italia. Gli inglesi si sarebbero installati in pianta stabile nelle isole; i francesi avrebbero ingoiato la Val d’Aosta e tutto il Piemonte e la Liguria occidentale, oltre a mantenere una zona di occupazione fino al Ticino; Tito si sarebbe pappato l’intero Friuli almeno fino al Tagliamento; l’Alto Adige sarebbe stato riconsegnato all’Austria; addirittura c’erano i greci che volevano una zona d’occupazione in Puglia! La Resistenza e l’attività delle truppe del governo del Sud avrebbero appunto evitato questo disastro. Altri storici contestano che sia stato effettivamente il contributo militare italiano alla guerra anti-tedesca a pagare il “biglietto di ritorno”, e sostengono che piuttosto sia stata la nostra importanza strategica sul fronte della guerra fredda dopo la rottura tra Usa e Urss a favorirci.

Quale che si il vero motivo, che comunque l’Italia sia stata trattata meglio rispetto a Germania e Giappone dopo il 1945 non è un’illusione. Non solo infatti da noi l’occupazione militare durò solo fino al 1946, rispetto alla data del 1951 per il Giappone e del 1954 per la Germania. Non solo all’Italia fu possibile darsi una Costituzione da sola mentre gli Alleati imposero la nuova Costituzione giapponese e interferirono pesantemente nella genesi della Grundgesetz tedesca (anche se, visto il modo in cui queste costituzioni hanno funzionato, molti ritengono oggi che l’apparente fortuna italiana rispetto a Germania e Giappone sia stata in realtà una disgrazia...). Non solo all’Italia fu persino possibile ricevere indietro una delle ex- colonie, la Somalia, in amministrazione fiduciaria per dieci anni. Addirittura, fu proprio per il motivo esplicitato che l’Italia “si era schierata dalla parte giusta” che ci fu possibile partecipare alle Olimpiadi di Londra del 1948 e ai campionati di calcio in Brasile del 1950: eventi sportivi da cui invece i “vinti” Germania e Giappone furono esclusi come misura punitiva (è vero che, anche qui, c’è chi ritiene che se ci avessero impedito di andare in Brasile a fare figuracce ci avrebbero fatto solo un favore...).

Oggi, comunque, è proprio su questo mito fondante che si basa tutta la capacità del variegato fronte pacifista di coniugare il nuovo antiamericanismo con la fedeltà alla lotta antifascista originaria. “No alla guerra senza se né ma, ma la guerra antifascista era un’altra cosa”. “Che c’entrano gli americani? Noi italiani ci siamo liberati da soli coi partigiani, gli americani sono venuti dopo!”. “I popoli devono liberarsi da soli, come abbiamo fatto noi italiani coi partigiani”, eccetera. E’ un tipo di argomentazioni su cui in realtà rispondono poco i due grandi filoni revisionisti tornati alla ribalta con libri recenti. Il primo è quello relativo ai “crimini” dei partigiani, in particolare di quelli “rossi”, che è stato oggetto del best seller di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile”. E’ un tema su cui, per la verità, si era dilungata da tempo tutta una pubblicistica non solo neo-fascista ma anche moderata, e di cui un punto di riferimento è tuttora nei tre tomi della “Storia della guerra civile in Italia” di Giorgio Pisanò. E si è detto che rispetto a questa polemica la grande novità del libro di Pansa è nell’essere una prima “ammissione” da parte di un uomo di sinistra. Ma la realtà è forse più sfumata. Questo tipo di pubblicistica “revisionista”, infatti, non si limita a dire che molti partigiani commisero crimini e atrocità, ma contesta anche drasticamente il ruolo e l’importanza militare della Resistenza. E ciò è contraddittorio: come possono aver commesso i partigiani tanti crimini se erano “quattro gatti” e la Resistenza “è stata inventata”? E’ un po’ la stessa contraddizione della storiografia revisionista sui campi di sterminio, le cui argomentazioni ridotte all’osso sono: “Gli ebrei non sono stati mai mandati nei campi di sterminio, e comunque se lo sono meritato!”. Pansa, invece, pur non essendo stato partigiano per ragioni anagrafiche, si è laureato con una tesi sulla Resistenza in provincia di Alessandria, che è poi stata trasformata in un libro che lo stesso Giorgio Bocca, oggi suo flagellatore, nel suo saggio del 1978 sulla storiografia della Resistenza definì una tappa fondamentale di quella “seconda generazione” di studi culminata nella sua “Storia dell’Italia partigiana”. Inoltre prima di diventare giornalista il giovane Pansa lavorò tre anni in un istituto di storia della Resistenza, ed è a quest’epoca che risale una massiccia “guida bibliografica” sulla Resistenza in Piemonte tra 1943 e 1963. Insomma, è proprio perché Pansa non dubita sulla “corposità” della Resistenza che ha potuto comprovarne gli eccessi.

C’è poi un secondo filone revisionista che contesta il primato “rosso” della Resistenza, rivalutando massicciamente il ruolo dei non comunisti. In questo campo il titolo recente è “La Resistenza cancellata” di Ugo Finetti. Ma in realtà i punti di riferimento effettivi li aveva già dati Giorgio Bocca nel 1966 proprio con la sua “Storia dell’Italia partigiana”, in cui si era messo a contare non solo il numero dei partigiani nei momenti cruciali del periodo settembre 1943-aprile 1945, ma anche la rispettiva filiazione ideologica. E tutta la storiografia moderata successiva, compresi i Montanelli e Cervi dell’“Italia della Guerra Civile”, ha poi utilizzato proprio quelle cifre. Che danno della Resistenza un quadro ben diverso da quello che ripete Giorgio Galli nei suoi libri sulla storia dei partiti politici italiani, secondo cui “tra i due terzi e i tre quarti dei partigiani erano comunisti”.

In base al conto di Bocca, infatti, il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di “autonomi”: bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che “nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati”. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, “sono la metà o poco meno”.

Ma al di là della polemica interna sul peso delle varie componenti, il dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni! Insomma, la tesi secondo cui in Italia nel 1945 ci fu una gran massa di eroi della sesta giornata, come si diceva a Milano dopo le cinque giornate del 1848, non è calunnia, ma verità storica acclarata. E che corrisponde d’altronde a una precisa logica militare: sono sempre i finali aggregarsi di masse alle élites guerrigliere a segnare il trionfo delle rivoluzioni.

Ma fu davvero questa “rivoluzione” a liberare l’Italia? Anche qui, piuttosto che sulle polemiche è opportuno basarsi sulle cifre. Oltre a quello dei partigiani alle dipendenze dei partiti del Cln, in Italia tra settembre 1943 e aprile 1945 furono arruolati altri due eserciti. Il secondo fu il complesso delle forze militari della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), che secondo una stima redatta dal Comando Ss di Milano contavano al 9 aprile 1945 attorno ai 130.000 uomini: 72.000 della Guardia Nazionale Repubblicana, nata dalla fusione tra carabinieri, Milizia e Polizia Africa Italiana; tra i 30.000 e i 35.000 soldati delle quattro divisioni regolari (Littorio di granatieri, Italia di bersaglieri, Monterosa di alpini, San Marco di fanteria di marina); 22.000 delle Brigate Nere, organizzazione armata del Partito Fascista Repubblicano; 4.800 della X Mas di Junio Valerio Borghese; 1.050 della Legione Autonoma Ettore Muti. Da parte sua Rodolfo Graziani in un suo memorandum a Mussolini del 25 giugno 1944 aveva stimato in 400.000 gli uomini chiamati dalla Rsi “alle armi e al lavoro”.

Il terzo esercito, infine, fu quello del Regno del Sud, che iniziò coi 6.000 uomini del Raggruppamento italiano motorizzato entrato in linea il 7 dicembre 1943, e mandato subito al macello sul fronte di Cassino, contro le posizioni di Monte Lungo e Monte Maggiore. Dal 18 marzo 1944 assunse il nome di Corpo Italiano di Liberazione (Cil), e nel luglio 1944 diede vita ai quattro Gruppi di Combattimento Friuli, Cremona, Legnano e Folgore, ognuno con un organico compreso tra i 9.500 e 12.000 uomini. Questi “Gruppi”, nucleo del futuro Esercito Italiano ricostituito, entrarono in linea nel gennaio del 1945 e parteciparono allo sfondamento sulla Linea Gotica sul fronte adriatico, assieme ai polacchi del generale Anders e a quella Brigata Ebraica embrione del futuro esercito di Israele (e i cui reduci nelle manifestazioni del 25 aprile si sono visti sventolare in faccia la bandiera palestinese). In particolare fu il Gruppo Friuli la prima unità alleata a entrare a Bologna. Come ammetteva invece Graziani nel già citato memorandum del 28 giugno 1944, malgrado i 400.000 richiamati la Rsi contro gli alleati non aveva “potuto inviare al fronte che quattro battaglioni di volontari, il Barbarigo, il Folgore, e due delle Ss”.

In particolare il comportamento di 1.400 paracadutisti che si fecero massacrare per cercare di fermare l’avanzata americana su Roma fu eroico. E va pure ricordato che la X Mas di Borghese, cui apparteneva il Battaglione Barbarigo, nel 1945 avrebbe combattuto sia contro i titini che contro la Friuli. Ma a parte questi casi numericamente marginali, resta il dato obiettivo che mentre il Regno del Sud riuscì a partecipare alla guerra vera e propria, la Rsi sostanzialmente no. E ciò perché i 130.000 uomini rimasti dopo la falcidia di diserzioni e imboscamenti erano stati distolti dalla guerriglia partigiana, che aveva trattenuto dal fronte anche almeno 70.000 soldati tedeschi. Insomma, la Resistenza è certo sopravvalutata, ma oggettivamente distrasse almeno 200.000 combattenti che agli Alleati avrebbero potuto dare più di un fastidio.

Ma dato alla Resistenza quel che è della Resistenza, bisogna pure dare agli Alleati quel che è degli Alleati. E anche qui, le cifre e le date parlano da sole. La Resistenza, cresciuta tra settembre e dicembre del 1943 al momento dell’avanzata alleata, subisce i primi micidiali rovesci tra la fine del dicembre del 1943 e il febbraio 1944, quando l’inverno arresta le operazioni sul fronte di Cassino e i tedeschi fanno allora grossi rastrellamenti che distruggono gran parte delle prime bande. Ed è proprio di questo shock che i “rivoluzionari professionali” del Partito Comunista e di quello d’Azione approfittano per prendere il sopravvento sugli autonomi, riorganizzando gran parte degli sbandati e inquadrando le nuove reclute nel momento in cui la ripresa dell’offensiva Alleata costringe i tedeschi ad allentare la presa. E la successiva avanzata degli anglo-americani dalla Linea Gustav alla Linea Gotica consente dunque alle bande di moltiplicarsi e attaccare, fino a creare le famose “repubbliche partigiane”: da Alba all’Ossola, alla Carnia, a Montefiorino. Ma il nuovo arrestarsi del fronte con l’autunno coincide con una nuova crisi, e sebbene i vertici partigiani contestino quel “Proclama Alexander” con cui il comandante inglese ha chiesto loro di sbandarsi in attesa della bella stagione, di fatto tra ottobre e dicembre del 1944 la cifra dei combattenti quasi si dimezza, mentre le repubbliche partigiane sono riconquistate l’una dopo l’altra. Infine, la moltiplicazione finale degli effettivi e la presa delle città coincide con la finale offensiva Alleata.

Insomma, i partigiani spadroneggiavano quando dovevano vedersela solo con le forze della Rsi, ma erano messi alla corda ogni volta che i tedeschi potevano distrarre dal fronte abbastanza forze da fare un repulisti. E un dato oggettivo è pure che sebbene dopo lo sbarco in Provenza del 15 agosto 1944 il confine delle Alpi fosse ridivenuto fronte tra tedeschi e Alleati, benché alle immediate retrovie di questo fronte il Piemonte fosse la regione con le bande partigiane più forti e agguerrite, i tedeschi riuscirono a reggere quella linea fino ad aprile inoltrato senza alcun problema. Conclusione: senza i partigiani, gli Alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli Alleati, la Resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.

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