Un capitolo sconosciuto  degli orrori staliniani: Nazino

Ne "L'isola dei cannibali" di Nicolas Werth il resoconto dei fatti avvenuti a Nazino in Siberia nel 1933. Siberia, 1933, Isola di Nazino, un lembo di terra sulla confluenza dell'Ob' e del Nazina, 900 chilometri dalla linea ferroviaria e dalla città più vicina, Tomsk. Qui si consumò una delle tragedie più terribili e sconosciute dell'orrore staliniano. In questo luogo estremo furono trasferiti ed in pratica abbandonati migliaia di "elementi declassati e socialmente nocivi" provenienti da Mosca e da Leningrado.

L'Isola dei cannibali - Nicholas Werth
L'Isola dei cannibali

I due terzi dei deportati - circa 4.000 persone - morirono di fame, consunzione e malattia nelle settimane successive al loro arrivo. I custodi davano a ciascuno di loro un pugno di farina, che veniva mescolata con l'acqua del fiume e mangiata cruda. "Morivano come le mosche, si ammazzavano tra loro", racconta una donna del luogo, la cui testimonianza quasi 60 anni dopo ha riportato alla luce la tragedia di ostrov ljudoedov, l'"isola del cannibali", come l'avevano soprannominata i residenti. L'isola dei cannibali è anche il titolo, drammaticamente evocativo, del libro dello storico Nicolas Werth (Corbaccio, 2007, pag. 190, euro 16,60) che ricostruisce l'intera vicenda, episodio cruciale e particolarmente drammatico della deportazione, il cui fallimento segnò in qualche modo una svolta nella politica staliniana dei campi. Agli inizi degli Anni 90, l'apertura degli archivi regionali di Novosibirsk e Tomsk, con la contemporanea pubblicazione di diversi documenti su Nazino, ha offerto la possibilità di indagare più a fondo su questo capitolo ignorato della storia sovietica. Ma il passo decisivo è avvenuto nel 2002, quando sono stati resi di pubblico dominio i documenti della commissione d'inchiesta patrocinata nel settembre 1933 dal Comitato regionale del Partito comunista della Siberia occidentale. La Commissione era stata incaricata di "verificare la veridicità delle informazioni" su quanto accadeva a Nazino inviate direttamente a Stalin da un piccolo dirigente comunista della regione, Velièko. Senza la sua iniziativa di avviare un'inchiesta privata probabilmente nessuno avrebbe saputo nulla dei risvolti del "grandioso piano" di deportazione messo in piedi dal capo della polizia politica, Genrich Jagoda, poi tramutatosi in un vero e proprio girone infernale per migliaia di persone. Una volta a Nazino, disperati e affamati, i "coloni" cercarono di fuggire su tronchi e zattere lungo il fiume, si dispersero nelle campagne, dettero l'assalto alle case dei villaggi vicini, divennero ladri, assassini e persino cannibali (in realtà, secondo Werth, poche decine di casi documentati, ma pur sempre tali da creare allarme anche nei carcerieri e nei dirigenti prima locali e poi centrali). Quasi tutti i deportati morirono d'inedia, si uccisero a vicenda o furono sommariamente giustiziati dopo essere stati vittime di angherie, violenze e sevizie da parte dei carcerieri-aguzzini, spesso sadici e criminali. "Data la spietatezza con cui era stato messo in atto, una spietatezza destinata a dar luogo a trasgressioni come il cannibalismo o la necrofagia - scrive Werth, che è stato, tra l'altro, il curatore della sezione dedicata all'Urss del Libro nero del comunismo - l'episodio di Nazino fu allo stesso tempo straordinario, singolare e profondamente rivelatore del clima di violenza e di involuzione che all'inizio degli anni 30 aveva conquistato alcuni spazi sovietici, profondamente sconvolti dalle deportazioni di massa e da giganteschi esodi di popolazioni... Fra tutti spiccava la Siberia occidentale, autentico Far East sovietico, luogo di deportazione e di assegnazione a residenza coatta per gli esclusi della società socialista in corso di formazione, nel contempo regione-frontiera e pattumiera dell'impero sovietico". Quanto accaduto nell'isola di Nazino rientrava nel progetto della polizia politica di affiancare ai campi di lavoro - i famosi gulag - un altro sistema di segregazione in località inospitali della Siberia alle quali inviare con domicilio coatto due milioni di "elementi antisovietici" non condannati ai campi.

Era il tentativo di "purificare la società socialista" mandando via dalle grandi città e dalle località di villeggiatura sia eventuali "nemici di classe" ancora in circolazione, sia invalidi, anziani, mendicanti. La tecnica usata era la "passaportizzazione" della popolazione urbana. L'operazione doveva porre un freno all'immenso esodo di contadini verso le città, portare a identificare meglio gli individui e "stabilirne con esattezza la posizione" all'interno della società. "Il passaporto - sottolineava Jagoda - è la prima e più importante linea di difesa sociale contro i criminali e gli elementi socialmente nocivi". Una direttiva segreta definiva alcune categorie, dai contorni molto sfumati, di individui ai quali doveva essere negato il rilascio del documento. Chi ne era sprovvisto doveva lasciare le città. Se fermato, veniva sottoposto ad alcune procedure particolari prima di essere espulso, deportato e assegnato a residenza coatta. Ma il piano, come dimostra Nazino, fallì nel peggiore dei modi.

Quanto accade nell'isola, secondo Werth, spiega molte cose sull'"attuazione omicida di un'utopia" basata su una tanto improbabile quanto criminale impresa di ingegneria sociale, nella quale emergono l'ossessione per le cifre (masse depersonalizzate), nonché il culto di una sorta di "estetica della pianificazione" percepibile nell'utopistica creazione di un sistema perfettamente ordinato di colonie gestite con un sistema militare-repressivo. I fatti di Nazino permettono, inoltre, di cogliere a fondo il sistema dei popolamenti speciali (una sorta di secondo Gulag), comprese le disfunzioni sui rapporti burocratici tra centro e periferia, e l'estrema approssimazione dell'organizzazione logistica. Illuminano, altresì, su quanto accadeva negli spazi incontrollati della periferia sovietica e sul livello di violenza che vi regnava. Costituiscono, infine, "un sorprendente osservatorio antropologico di un gruppo di individui posti in una situazione estrema, generatrice di regressione e di trasgressioni al termine di un vero e proprio processo di decivilizzazione". "Sull'isola di Nazino - scriveva Velièko a Stalin - l'uomo ha cessato di essere uomo. Si è trasformato in sciacallo".

Per quanto orribile fosse l'accaduto, i circa 4000 scomparsi di Nazino costituiscono appena l'1% dei deportati fuggiti senza lasciare traccia o morti nel 1933 (le cifre ufficiali parlano, infatti, di 367.457 individui, ovvero un terzo dei "trasferiti speciali" censiti al 1° gennaio di quell'anno. Di questi 151.601 furono registrati come deceduti, 215.856 come "evasi"). Dopo il rapporto della Commissione, che attestava inequivocabilmente il fallimento del piano, gli esperimenti furono interrotti, ma non si pose fine alla politica di epurazione. Inoltre si dovevano pur sempre organizzare la vita e la sussistenza delle centinaia di migliaia di persone avviate verso gli Urali, la zona del mare di Azov, o verso le regioni più inospitali del lontano oriente.

Comunque, come ricostruisce Werth, Stalin fece tesoro di quanto accaduto nella sperduta isola, ma solo per giungere ad una decisione cinicamente più drastica: in sostanza, se non si riusciva a far sopravvivere i deportati, tanto valeva eliminarne il più possibile. L'occasione per una soluzione definitiva venne nel 1937, quando l'Nkvd (il Commissariato del popolo per gli affari interni che nel 1934 assorbì le competenze della polizia politica) moltiplicò le "scoperte" di supposte "organizzazioni insurrezionali" che potevano costituire una "quinta colonna" di un più o meno ipotetico nemico straniero. Si arrivò, così, al famigerato ordine operativo n. 00447 dell'Nkvd per la repressione degli ex kulak, dei criminali e degli altri elementi antisovietici, firmato da Ezov dopo una circolare segreta di Stalin che prevedeva anche la fucilazione nei casi di maggiore pericolosità. "Questa operazione - conclude Werth -, la più imponente fra la dozzina di "azioni repressive di massa" lanciate dall'Nkvd fra l'agosto del 1937 e il novembre del 1938, periodo entrato nella storia sotto il nome di "Grande Terrore" e nel corso del quale furono arrestate più di un milione e mezzo di persone, di cui 800.000 fucilate al termine di una sommaria procedura extragiudiziaria, costituì il culmine di una serie di campagne e pratiche di polizia in atto da diversi anni e divenute sempre più drastiche. In questo processo di radicalizzazione omicida, l'affaire Nazino rappresentò, come abbiamo visto, un momento fondamentale".

Osservatore Romano, 27 giugno 2007 - GAETANO VALLINI

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