5 marzo 1953 - Morte di Stalin - Bach alla radio

La morte di Stalin - 5 marzo 1953 nel racconto di Evgenija Solomonovna Ginzburg (una dirigente del partito che era stata deportata anni prima nella regione della Kolyma). In questo capitolo del suo bellissimo libro "Viaggio nella vertigine" descrive le speranze dei deportati che come lei erano scampati ai lavori forzati e si trovavano confinati a Magadan. Nei giorni attorno al 5 marzo 1953 si inaugurò l'uso, destinato a diventare consuetudine in tutti i regimi dittatoriali alla morte del capo, di trasmettere musica classica alla radio. Un igenico riempitivo in attesa di vedere chi prevarrà alla successione.

Alla radio trasmettono Bach

Prima e dopo il 5 marzo 1953, nei mesti giorni dei funerali del Grande e del Saggio, nell’etere regnava Johann Sebastian Bach. Nelle trasmissioni la musica occupò un posto senza precedenti, smisurato. Lente, grandiose, luminose, melodie si riversavano da tutti gli altoparlanti della nostra baracca, coprendo il trambusto dei bambini nel corridoio e i pianti isterici delle donne. Sì, nella nostra baracca, popolata dai reietti della Kolyma, c’erano donne che piangevano a gran voce il morto, strillando le esclamazioni di rito: «Chi ci proteggerà, ora che ci hai lasciato...» Conoscevano le buone maniere, le nostre donnette, e non volevano essere da meno degli altri. Piangeva tutta Magadan, dunque piangevano anche loro.

Tuttavia, a volte, riunite in cucina, d’un tratto interrompevano le lamentazioni e, con fare pratico, si scambiavano le proprie considerazioni su ciò che ora sarebbe accaduto a noi poveri orfani. Per quel che riguardava la situazione internazionale, tutte erano d’accordo che una guerra era ormai inevitabile, dal momento che non c’era più nessuno a proteggerci. Per quel che riguardava invece gli affari interni, a dispetto dei singhiozzi, cominciavano a tratti a far capolino delle noticine ottimistiche: forse ora ci sarebbe stata meno severità. forse: qualcuno sarebbe riuscito a tornare a casa…

«E tu mamma, perché non piangi?» mi chiedeva incuriosita Tonja. «Tutte le zie piangono e tu no...»
«La mamma ha gia pianto». le spiegava pazientemente Anton, «quando tu eri dalla zia Julia.»

In quei giorni di lutto ricominciò a rivolgersi ad Anton un gran numero di pazienti. Di continuo lo mandava a chiamare qualche pezzo grosso. A causa delle emozioni angosciose, della profonda costernazione e delle preoccupazioni per il futuro, molti si ammalavano. E si ricordavano di quel medico tedesco, ora caduto in disgrazia, sospeso dall'incarico, cui era stata ritirata la carta d’identità, ma che sapeva fare il suo mestiere.

La costernazione aveva colpito i personaggi importanti della Kolyma molto prima della comunicazione dell’esito mortale della malattia del Grande Capo e Amico. Già i primi bollettini li avevano gettati in una tormentosa perplessità. Si erano infatti completamente dimenticati che il Generalissimo era fatto della stessa imperfetta mate ria di cui erano fatti anche gli altri mortali. La sua malattia costituiva un‘incrinatura nella compattezza di quel felice, razionale e armonioso pianeta di cui erano abitatori e padroni.

Pressione sanguigna... Albumina nelle urine... Tutto questo andava bene per gli uomini comuni, ma come poteva esserci una relazione tra lui e questa meschina realtà?

Senz'altro si sarebbero sentiti offesi nei loro migliori sentimenti anche gli antichi slavi se qualcuno avesse loro annunciato che a Perun (è la principale divinità del pantheon slavo N.d.r.) era salita la pressione. Oppure gli antichi egizi, se improvvisamente fossero venuti a sapere che il dio Osiride aveva dell’albumina nelle urine.

Ma ancora più dirompente fu l'effetto provocato dalla sua morte: nulla di strano, dunque, se molti furono colpiti da attacchi di angina pectoris o da crisi di ipertensione cardiaca. No, con tutto il loro realismo, non potevano adattarsi al volgare pensiero che il Genio, il Capo, il Padre, il Creatore, l’Ispiratore, l’Organizzatore, il Migliore Amico, il Corifeo... era sottoposto alle stesse meschine leggi della biologia cui era sottoposto qualsiasi carcerato o deportato. Nel gigantesco sistema, armonioso e pianificato, si era insinuato il capriccio della morte, e per loro questo era inconcepibile. In fondo, si erano come abituati all'idea che i personaggi di alto rango potevano morire soltanto su disposizione personale del compagno Stalin. E ora, invece... No, davvero, tutto questo era scandaloso, indecente...

In soccorso alla vacillante maestà era stata quindi chiamata la solenne musica di Johann Sebastian Bach.

Anche molti deportati politici in quei giorni soffrirono di attacchi di cuore e crisi di nervi. Privati per decenni di ogni speranza, letterali mente svenivamo, colpiti dall'apparizione della prima luce. Assuefatti alla schiavitù, al sorgere dell'idea della libertà perdevamo conoscenza. Incatenati alla nostra prigione di ghiaccio, cadevamo come malati al ricordo dei treni, delle navi, degli aerei...

Nessuno di noi in quei giorni riusciva a stare chiuso in casa. Andavamo in giro per le strade, fermandoci quando incontravamo qualche altro deportato. Con fare circospetto ci scambiavamo uno sguardo, qualche sussurro eccitato. Eravamo come ubriachi. Il presentimento di un cambiamento vicino ci faceva girare la testa. Benché nessuno ancora sapesse che dalla penna felice di Erenburg sarebbe uscita la meravigliosa parola «disgelo» tuttavia era come se avessimo sentito scricchiolare i lastroni di ghiaccio e tutti, scherzando, ripetevamo l’espressione di Ostap Bender: «Il ghiaccio è rotto, signori giurati!»

«Dicono che il successore sarà Molotov...»
«Difficile... È un cretino... Ripete solo luoghi comuni.»
«Finitela...»
«È più probabile Berija...»
«Allora siamo a posto!»
«Probabilmente esiste qualche documento... Un testamento sulla successione al trono...»
«In ogni caso il soggiorno obbligato sarà abolito, vedrete!»
«E anche le condanne a vent’anni...»

Di tanto in tanto risuonava anche la voce di qualcuno completamente disorientato: «Purché le cose non vadano ancor peggio. . .» Ma veniva immediatamente assalito con violenza. Ricominciavano le discussioni sul ruolo della personalità nella storia. Tra i confinati c’erano ancora dei marxisti ortodossi che continuavano a balbettare con voce tremolante le formulette che avevano imparato alle lezioni di materialismo dialettico.

Ma la stragrande maggioranza dei deportati avvertiva chiaramente come lo Stato, privato del despota alla fine del trentesimo anno del suo regno, vacillasse, e percepiva la costernazione e l’allarme di tutti quelli, grandi e piccoli, che avevano eseguito i suoi ordini, alla notizia Che non c’era più il «dito che per tanti anni aveva premuto il bottone di comando della macchina».

Il quarto giorno di musica funebre, tornando a casa da Magadan, vidi che il nostro pianoforte era di nuovo al proprio posto.

[...]

«Ora non correte più alcun pericolo» disse Stephan bonariamente, «adesso nessuno vi toccherà più.»

clima culturale
propaganda comunista

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