5 marzo 1953: la morte di Stalin

Alle 21,50 del 5 marzo 1953 Radio Mosca trasmette una notizia che è uno shock per il mondo: è morto Stalin, presidente del Consiglio dei ministri dell'Urss e segretario del Comitato centrale del Pcus.

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Il rimpianto e la lotta di potere

Il funerale è imponente, un centinaio di persone cade ed è travolto nella calca. La morte di Stalin, nel Paese, è accolta dalla gente comune con sincero rimpianto, quasi si trattasse di un lutto familiare. Diverso l'atteggiamento dei leader politici: la sua scomparsa è una liberazione perché li mette al riparo da un'eventuale, improvvisa, epurazione.

Si racconta che Nikita Kruscev abbia ballato attorno al cadavere ancora caldo. Nessuno, tuttavia, è in grado di ricevere la pesante eredità, per cui si apre al Cremlino un'aspra lotta di potere. Il trauma provocato dalla morte del "Capo" si ripete tre anni dopo con la condanna del "culto della personalità" pronunciata da Kruscev al Ventesimo congresso. La demolizione del mito di Stalin produce nel popolo sovietico e nel movimento comunista internazionale una crisi di coscienza che richiederà molto tempo per esaurirsi.

Il georgiano

Stalin (che significa "uomo di acciaio") è il nome di battaglia di Iosif Vissarionovic Giugashvili, un georgiano che nasce a Gori il 21 dicembre 1879, figlio di un calzolaio e di una lavandaia, studia in seminario per poi aderire alla rivoluzione di Lenin e assumere un ruolo importante nel Partito comunista sovietico. Lenin, che muore nel 1924, lo definisce nel testamente "rozzo, violento e incline all'abuso del potere". Come da copione, Stalin s'impone come capo del partito con poteri assoluti e dal '28 avvia la sua era: industrializzazione forzata, collettivizzazione dell'agricoltura con mezzi spietati e "purghe" degli (spesso presunti) nemici. Morte nei gulag, morte per fame, per deportazione, per fucilazione. Negli anni Trenta e Quaranta (compresa la vittoriosa guerra contro il nazismo e l'occupazione dell'Europa dell'Est), la vicenda della sua persona s'identifica con la storia dell'Urss, di cui è l'onnipotente artefice fino alla morte.

Il giudizio su Stalin

Dietro la maschera di bonarietà, Stalin è un uomo dal carattere aspro, aggressivo e vendicativo, che crede fermamente nella violenza e se ne serve nel suo meccanismo criminale. Come statista è un leader che appartiene fermamente alla realtà sovietica e universale, entrando di diritto nella galleria dei violenti promotori di Storia, come Cromwell, Hitler e (a un altro livello) Napoleone. Provoca effetti devastanti e di lunga durata. Ha una forza di volontà sovrumana, é idolatrato e odiato, è un conquistatore e quindi anche un distruttore. Crea un grande impero, stermina milioni di uomini ma milioni muoiono col suo nome sulle labbra. L'una cosa e l'altra accetta come una necessità, perché identifica sé stesso con la propria idea di mondo.

 

29 febbraio 2008 Marco Innocenti - Il Sole 24 Ore


Il 5 marzo del 1953 moriva Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin. Il soprannome gli era stato affibbiato durante la clandestinità che risaliva al periodo zarista e derivava dal termine ‘stahl’, la cui traduzione significa acciaio.

Stalin era nato in Georgia, a Tiflis (o Tiblisi), il 21 dicembre del 1879, da una famiglia povera di origini contadine. Ben presto il futuro dittatore mostrò i tratti del suo carattere, tanto che nel 1902 è deportato in Siberia per causa dei disordini scoppiati a Batum, la città sul Mar Nero nella quale si era trasferito. Un anno dopo Stalin è al fianco dei comunisti di Lenin. Ed è così che comincia, gradino dopo gradino, a salire la scala gerarchica del movimento bolscevico.

Nel 1912 il georgiano d’acciaio è coptato nel comitato centrale del partito, ma poco tempo dopo verrà nuovamente internato in Siberia, e questa volta la prigionia durò a lungo, quattro anni. Riconquistata la libertà, Stalin ritorna al partito che dal 1917 lo mette alla direzione della Pravda. Ed ecco che l’ascesa di Josif Vissarionovic Dzugasvili subisce un’accelerazione inarrestabile. Prima commissario alle nazionalità, poi sul finire del 1924 e l’inizio del 1925 già alla guida del movimento bolscevico, segretario generale del Pcus, il Partito comunista sovietico.

Poco prima di morire, tra il dicembre del 1922 e il gennaio del 1923, Lenin scrisse una lettera al congresso (conosciuta come “il testamento”) nella quale affrontò i nodi organizzativi del Partito bolscevico. Nello scritto non lesinò critiche ai dirigenti e in particolare a Stalin. Tra gli altri giudizi vi si legge: “Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare un altro uomo…”.

Ma Stalin, burocrate che conosceva ormai in modo perfetto la macchina, poco si curò dei giudizi espressi dal suo ex maestro di lotta e di dottrina e, dopo essere succeduto a Lenin, dal 1925 iniziò a consolidare il suo potere isolando e debellando gli avversari all’interno del partito. I primi a fare i conti con lo stalinismo agli albori furono i dirigenti di Pietroburgo e Mosca, Zinoviev e Kamenev, che solo poco tempo prima erano stati alleati di Stalin per tarpare le ali alle ambizioni di Trotzky, fondatore dell’Armata Rossa, che in molti sostengono fosse il naturale erede di Lenin.

Stalin, dal punto di vista ideologico, avversò in tutti modi la dottrina della ‘rivoluzione permanente’ e internazionale predicata da Trotzky, contrapponendole la più concreta e praticabile teoria della ‘rivoluzione in un solo paese’, che era più gradita alla maggioranza dell’apparato bolscevico in quanto poteva garantire da subito quei principi di formazione sui quali si doveva basare lo stato sovietico. Il XV congresso del Pcus del 1927, poi, fu una tappa fondamentale nella carriera di Stalin che riuscì a fare passare Trotzky come traditore della causa del comunismo e dell’Urss, spedendolo in esilio e spingendosi poi fino al punto, nel 1940, di farlo assassinare da un sicario con un colpo di piccozza alla testa mentre si trovava in Messico.

La ferocia fu un tratto caratteristico che contraddistinse la dittatura del burocrate georgiano: sia nella repressione dei dissidenti del regime e sia per quel massacro scientifico che praticò nei confronti del suo stesso popolo. Come nel caso dei kulaki, i contadini possidenti, che erano di intralcio alla collettivizzazione forzata dell’agricoltura. Tra sofferenze, stragi e deportazioni nascevano così nell’Unione sovietica degli anni Trenta i Kolkoz, aziende agricole del lavoro forzato. Poco tempo dopo videro la luce anche i sovchoz, strutture più grandi rispetto ai Kolkoz e interamente statali.

In quello stesso periodo l’Urss entra nella spirale dell’industrializzazione forzata che viene gestita attraverso una serie di piani protesi verso la metallurgia e in generale allo sviluppo dell’industria pesante. Si riattiva quindi una commissione statale per la pianificazione, il Gosplan, che era stata nel 1921 alla base della Nep (Nuova politica economica) e che ora, alle dipendenze di Stalin, aveva il compito di elaborare il piano quinquennale del 1928.

Una data significativa dello sterminio programmatico attuato da Stalin nei confronti del suo stesso popolo fu il 1932, quando il dittatore scatenò sui contadini ucraini, che si battevano contro la collettivizzazione forzata, ‘la grande carestia’, con la quale affamò fino a ucciderle milioni di persone. Ma se il tormento e la morte scandivano le tappe del nuovo processo economico in vigore nell’Urss, non meno sanguinaria fu l’arena politica. Dal 1935 fino al 1938, infatti, furono gli anni del ‘Grande Terrore’, contraddistinti dalle purghe staliniane, costruite su persecuzioni, processi sommari, carcerazioni, deportazioni in massa nei campi di concentramento, i terribili gulag siberiani, e barbare uccisioni. Proprio negli anni Trenta, in pieno regime poliziesco, sotto il vigile e spietato controllo della Ghepeù, poi NKVD, agli ordini del potente Lavrentij Berija, la dittatura di Stalin raggiunse l’apice del potere incontrastato e incontrastabile, totalitario. Nell’agosto del 1939, era il 23, Stalin firmò un patto di non aggressione con la Germania nazista di Adolf Hitler, l’accordo prese il nome dei due ministri degli Esteri, Ribbentrop e Molotov. La mossa spiazzò il mondo, tanto che il duce del fascismo Benito Mussolini disse: “Stalin, davanti alla catastrofe del sistema di Lenin, è diventato segretamente un fascista. Essendo lui un semibarbaro, non usa l’olio di ricino, ma fa piazza pulita con i sistemi che usava Gengis Khan. In un modo o nell’altro sta rendendo un commendevole servizio al fascismo”.

Ma nel giugno del 1941 parte l’operazione ‘Barbarossa’, le forze dell’Asse invadono il territorio dell’Unione Sovietica. In un primo momento, Stalin, colto di sorpresa, viene preso dal panico per l’avanzata germanica e vacilla, fuggendo da Mosca. Poi il dittatore, qualcuno dice lontano dalla capitale, altri dal Cremlino, riprese a parlare e soprattutto a comandare il suo popolo, che, dopo sconcertanti perdite, si parla di oltre 20 milioni di morti, riuscì a respingere l’invasore.

A partire dal 1946, a guerra finita, con l’Europa distrutta, ancora in cenere, gli equilibri politici globali erano profondamente mutati e Stalin concentrò nella sua stessa persona le cariche di primo ministro del governo sovietico, segretario generale del comitato centrale del Pcus e capo delle forze armate. Tra l’altro, il dittatore della steppa, che in precedenza aveva partecipato con le democrazie occidentali alle conferenze di Teheran, Jalta e Potsdam, aveva raggiunto una dimensione internazionale di primo piano, tanto che Winston Churchill, noto anti-bolscevico e in quel tempo suo alleato, si giustificò: “Per vincere avevo una sola scelta: quella di allearmi col diavolo”.

Dal punto di vista ideologico nell’Urss degli anni Quaranta e Cinquanta la dottrina della ‘rivoluzione in un solo paese’ cede il passo a quella del ‘campo socialista’ che nasce sotto l’egida del guardiano ideologico del Cominform e che comporta una durissima repressione con una lunga scia di morte in tutta l’area balcanica, tra i Paesi satelliti dell’Urss. Cominciò così la Guerra Fredda tra Est e Ovest.

Dopo un malore che lo aveva colpito nella notte dei primi giorni di marzo, Stalin morì a Mosca il 5 marzo del 1953. In milioni lo piansero, mentre in Unione Sovietica per i funerali arrivarono tutti i capi del comunismo mondiale, compreso il segretario del Pci Palmiro Togliatti. Nel 1956, poi, mentre i carri armati sovietici erano di nuovo impegnati a soffocare nel sangue l’ennesima rivolta di dissidenti in Ungheria, il XX congresso del Pcus, con la regia del segretario generale Nikita Krusciov, sgretolò il mito di Stalin, squarciando il velo sugli anni bui della sua tirannia e consegnando alla storia i suoi crimini.

Ferruccio Del Bue - L'Avanti - http://www.avantionline.it/2014/03/5-marzo-1953-muore-stalin/#.VtcrDCjhDDc

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