Il pianeta - Kolyma - Magadan - Dal'stroj

Le impronte della Land Rover di cacciatore scompaiono e saliamo fino a una valle dove anche i lanci si diradano. E circondata da montagne che quasi la soffocano, incombono a precipizio, stagliate nel cielo lattiginoso. Amano a mano che saliamo, il terreno diventa scosceso e innaturale. In cima si aprono le svasature nere delle imboccature delle miniere, le linee delle teleferiche vacillano sulla salita innevata e ridiscendono in una successione di patiboli cadenti fino al fondo valle. Sotto le imboccature delle miniere il materiale di scarto è scivolato giù spianando i declivi. E l’aria attorno a noi è cambiata. La neve è come sospesa in una nebbiolina luminescente e riempie la valle di un bagliore spettrale; intanto è sorto un sole velato. Alla nostra destra, dietro una staccionata di filo spinato collassata, una fabbrica di tre piani in rovina si erge con i suoi muri bianchi sopra un fiumiciattolo bianco. Era l’impianto di flottazione per l’uranio, spiega Jurij, è ancora pericoloso entrarci. Una squadra di lavoro poteva morire in pochi mesi. Accelera con decisione e l’edificio scompare alle nostre spalle.

«Anche quelli che sono usciti di qui, sono poi morti per le radiazioni». Dopo circa un chilometro il furgone slitta su per una scarpata che non riesce a passare. Proseguiamo a piedi, nel silenzio limpido e smagliante. In alcuni punti la neve ci arriva al ginocchio. Jurij mi precede, indifferente, col berretto abbassato fin sul collo. Io seguo le sue orme, mi batte il cuore come se stessimo per entrare in una cattedrale, o in un obitorio. Invece raggiungiamo un gruppo di edifici amministrativi in pietra gialla. Sono in rovina, con i tetti sfondati e le porte scardinate e marcescenti. I telai delle finestre sono rettangoli argentati di neve aperti sul nulla. Una serie di gradini conduce a una veranda da cui si apre una porta su un vuoto profondo almeno sei metri. Il poeta Anatolij Zigulin, sopravvissuto a questo campo negli anni Cinquanta, descrisse mutilazioni brutali, incidenti, assassini tra detenuti, scioperi disperati. li prigioniero non aveva nome, non aveva identità. Veniva chiamato con un semplice numero.

Alcuni erano in catene. Dovevano salire per sei chilometri fino alle miniere; c’era una squadra di detenute che doveva trascinarsi ogni giorno per dodici chilometri per portare al campo sull’altro lato della montagna le razioni di cibo gelate. Le strutture in ferro della recinzione si reggono ancora in piedi, in doppia fila tra le torrette crollate. Sotto la neve i piedi inciampano su oggetti che possiamo solo immaginare, e portano alla luce pezzi di filo spinato. Macchinari arrugginiti affiorano in superficie. Più avanti, attraversiamo la zona dei dormitori delle guardie e delle celle di prigionia in rovina. Nelle camerate senza più tetto le panche delle guardie sono ancora al loro posto, con una fila di ganci per i cappotti. La neve si è accumulata in mucchi cristallini sui tavolati dei letti. Un paio di stivali giace abbandonato vicino a una stufa. Da ogni cosa trapela la rozzezza e lo squallore della quotidianità. Porte di ferro scheletriche si aprono su celle d’isolamento di un paio di metri quadri. Si vedono ancora le fenditure da cui venivano fatte passare le razioni per i prigionieri, le finestrelle con le sbarre sono ancora intatte, e così la stufa nella sauna delle guardie. L’aria sembra fina. Ma le guance di Jurij sono rosa e screpolate. Scalcia via la neve da una seria di ceppi conficcati nel terreno, per mettere in evidenza delle fondamenta in legno. « Qui c’erano le tende » dice. « Dormivano qui».

Era così in quasi tutti i campi della Kolyma. I prigionieri vivevano e morivano nelle tende. Per disperazione infilavano muschio isolante e torba tra i due strati di telone, li spruzzavano di segatura bagnata e vi appoggiavano delle assi all’esterno. Dentro c’era un’unica stufetta di ghisa. E adesso la neve scende, soffice e insistente. Cade sopra i picchetti e ricopre gli edifici con pallida indifferenza. Si infila nei buchi dei tetti, invade le camerate delle guardie, i locali dell’amministrazione, dell’indifferenza, della noia.

Riempie la valle di una semitrasparenza insana. Jurij continua a prendere a calci le piattaforme delle tende, poi mi guarda. « Lo sa, mio nonno faceva il postino al villaggio. Ha passato anni in un campo per avere detto una battuta su Stalin». « Una battuta? » « Sì, si occupava del telefono del villaggio, e un giorno ha detto a un conoscente che passava di li: ‘Ehi, c’è Stalin che ti vuole al telefono!’ Così è finito nei campi per cinque anni. I miei genitori devono averne sofferto molto». Schiaccia sotto lo stivale un picchetto di legno. « Noi tutti siamo cresciuti con genitori che non parlavano». Saliamo fino al punto in cui dovrebbe trovarsi il cimitero, ma sotto la neve è introvabile. La luce opalescente è ancora più intensa sopra la valle. Attorno a noi gli alberi e i cespugli sono coperti di neve e appesantiti, come se fossero carichi di frutti bianchi. Fremono in ondeggiamenti impercettibili. Raccolgo da terra qualche ago di cedro nano, i prigionieri li mettevano a bollire nella vana speranza di evitare lo scorbuto.

Dico: « Comunque vada adesso, è sempre meglio di prima». Dapprima Jurij non risponde. Fa tutto con grande lentezza. Ha una lieve balbuzie. Dice: « Quelli erano tempi di religiosità, in un certo senso. La gente credeva a qualcosa». Sembra che li rimpianga. E così i patimenti sono piovuti dal cielo, con la naturalezza della pioggia o della grandine. Non c’era nessuno da accusare. Nessuno che fosse abbastanza vicino, abbastanza concreto. L’impero di Stalin, come il Reich di Hitler, era concepito per durare tutto il tempo immaginabile. Il passato era stato risistemato per sempre, il futuro preordinato.

Dico, non riuscendo a capire: « Ma tutto questo non tornerà più». Jurij mi spiega: « Noi non siamo fatti come voi occidentali. Forse siamo come eravate voi secoli fa. Qui siamo in ritardo con la storia. Da noi il tempo procede in senso circolare».

Colin Thubron
Colin Thubron

Non voglio sentire queste cose, non qui, nel cuore della tenebra. Voglio che definisca questo posto un atroce mistero. Voglio che si rifiuti di comprenderlo. Con quei suoi baffi spioventi e gli zigomi tartari, lo considero la quintessenza del carattere russo, la cartina di tornasole per il futuro. L’aria di montagna mi sta dando alla testa. Ma la sua mano che stava tracciando un cerchio nell’aria, si solleva, esitante. « Forse procede a spirale » precisa, « sale lentamente». Guarda lontano, dove le teleferiche pencolano in una processione spettrale sopra le colline. «Vorrei che mio nonno fosse ancora vivo. Gli piaceva scherzare. Adesso si può scherzare su tutto. Questo ci è rimasto. Le battute». Gli passo un braccio sulla spalla, ma siamo troppo grossi nei giacconi imbottiti e la mia mano scivola via. Per la prima volta sorride, schiude le labbra sui denti ingialliti, poi ritorniamo al sentiero. E sulla discesa gelata si mette a cantare.

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