La psicologia di Beria e di Stalin

Come sottolinea lo storico Ronald Suny, per il georgiano l’ideale di virilità ha un’estrema importanza: è fondamentale per l’uomo essere impavido, deciso, imponente, dotato di notevole forza fisica, orgoglioso e leale versò gli amici, la famiglia e la nazione; inoltre, il georgiano deve essere sempre sontuosamente ospitale e saper reggere gli alcolici. Nella società georgiana ha grandissima importanza il senso dell’onore: non essere all’altezza dell’ideale virile significa disonorarsi e trascinare nella vergogna se stessi e la propria famiglia. Stalin condivideva tutte queste idee e, durante la clandestinità seguita alla militanza bolscevica, si fece chiamare «Koba», dal nome del protagonista di un famoso romanzo georgiano che incarnava tutte le caratteristiche della virilità nazionale. Eppure, nel confrontarsi con questa figura eroica, il dittatore sovietico fallì miseramente, come del resto aveva fallito il padre, Beso Dugavili, morto durante una rissa quando Stalin era ancora bambino: il genitore era stato infatti un ubriacone, incapace di mantenere la famiglia e violento tanto verso il figlio quanto verso la moglie.
Stalin non aveva avuto, dunque, un modello di autorità patriarcale consono alla tradizione; al contrario, aveva dovuto fare affidamento solo sulla ferrea volontà della madre che, ancora prima della morte del marito, aveva preso in mano le redini della famiglia. Basso, con un braccio offeso per i postumi di un incidente e il volto deturpato dal vaiolo, Stalin aveva in più lo svantaggio di un aspetto fisico infelice. Secondo le ipotesi dei suoi biografi, nonostante l’affetto che la madre sembra aver nutrito per lui, le violenze subite nella prima infanzia indussero in lui un’insicurezza e un senso di inferiorità profondissimi, che costituirono un ulteriore ostacolo al raggiungimento di quell’ideale di virilità. Le vessazioni del padre gli instillarono, inoltre, una congenita sfiducia nel prossimo e una spiccata propensione alla vendetta, tratti di carattere peraltro accentuati dalle regole della società georgiana:
L’alto valore assegnato all’amicizia, alla lealtà e alla fiducia in una società ferocemente competitiva faceva aumentare la possibilità di andare incontro a delusioni e disillusioni. Tradire un amico era la colpa suprema. La competitività porta a dare giudizi di superiorità odi inferiorità — chi è più forte, chi beve di più, chi propone i brindisi più toccanti — e di conseguenza crea tensioni, frustrazioni e sospetti reciproci: assegnare un siffatto valore alla fiducia implica il dover affrontare l’onnipresente timore del tradimento. Le amicizie e i legami di parentela forniscono sicurezza, protezione e risorse di tutti i generi, ma non possono eliminare la paura del tradimento o il timore di perdere la fiducia degli altri e l’onore.
Nello sviluppo psicologico di Stalin, quindi, la complessa interazione delle esperienze culturali e familiari contribuì a creare una personalità profondamente nevrotica, paranoide, alienata e incapace di una vita emotiva normale, Beria comprese tutto ciò non solo perché a sua volta era georgiano, ma anche perché aveva subito un’educazione assai simile. Anche lui proveniva da una povera famiglia di contadini ed era cresciuto in una zona agricola fortemente depressa; anche lui aveva perso il padre molto presto ed era stato allevato dalla madre senza un modello maschile di riferimento.
Rendendosi conto dell’insaziabile bisogno di Stalin di sentirsi lodato per compensare il profondo sentimento di inferiorità da cui era afflitto, Beria non cessava mai di adularlo. Sfruttava a proprio vantaggio l’ossessione di Stalin di venire tradito alimentandone la diffidenza: facile impresa, considerato il controllo che aveva sulla polizia politica e quindi sui dossier intestati ai colleghi e ai subordinati del dittatore. Come ha osservato Robert C. Tucker,
Beria non si limitava a soddisfare la bramosia di adulazione di Stalin, ma ne sollecitava attivamente la tendenza a non fidarsi degli altri, la necessità, originata in Stalin dai suoi stessi sensi di colpa, di denunciare, accusare e punire gli altri come nemici. Da questo punto di vista, la funzione di un personaggio come Seria non poteva che essere quella di fornire a Stalin sempre nuovi oggetti di sospetto e di condanna?
Unico georgiano tra i più stretti collaboratori di Stalin, Beria ne incarnò in un certo senso l’alter ego. Rivolgendosi a lui in pubblico nella comune lingua materna e appellandolo spesso con l’antico nome di battaglia di «Koba», non faceva che rammentargli di continuo le sue origini. Eppure Stalin provava nei confronti della patria sentimenti profondamente contraddittori — fatto non sorprendente, considerata la sua infanzia infelice — e a poco a poco cercò di disfarsi della propria identità di georgiano.

Paradossalmente fu proprio Beria ad agevolare tale processo, rendendosi complice di due atti che simbolizzarono il ripudio del legame con le radici. In primo luogo, nel 1935 il collaboratore di Stalin pubblicò il suo famigerato K voprosu ob istonii bol’sevistskih organizacij v Zakavkaz’e (Sulla storia delle organizzazioni bolsceviche in Transcaucasia), il cui fine era quello di assegnare al dittatore un ruolo di predominio nel movimento rivoluzionario del Caucaso, falsando la realtà storica e sminuendo il contributo di altri rivoluzionari. Non è chiaro se l’idea di scrivere il libro sia stata di Stalin: in ogni modo, avendo approvato con entusiasmo l’iniziativa e avendo accettato la glorificazione, priva di ogni fondamento, del proprio ruolo a scapito della verità, fece sì che si rinnegasse qualsiasi fedeltà alla storia della Georgia e qualsiasi rispetto del passato. Inoltre, nel 1937, quando Stalin non prese parte al funerale della madre, in Georgia, Beria, che all’epoca era segretario del partito in quella repubblica, lo sostituì e si occupò anche dell’organizzazione della cerimonia. Quali che fossero i motivi dell’assenza di Stalin, quest’ultima non rappresentò solo un tremendo insulto alla memoria della madre, ma anche una scandalosa violazione della tradizione culturale e sociale di un paese in cui il culto dei morti ha la massima importanza.

Tuttavia Beria non fu solo un parassita che si guadagnava i favorì di Stalin con metodi subdoli ma, incoraggiando attivamente le nevrosi del dittatore e il suo senso di alienazione, lo «eccitava» come nessun altro era capace di fare. Stalin divenne psicologicamente dipendente da Beria, il quale rimase sempre al suo fianco fin dai primi anni Quaranta. Durante le interminabili cene a cui tutti i più stretti collaboratori di Stalin erano obbligati a partecipare, Beria aveva, sebbene non ufficialmente, il compito di proporre i brindisi, costringendo gli ospiti a consumare grandi quantità di alcol e ad abbandonarsi a battute volgari. Facendo eccezione per la figlia, Stalin non frequentava i propri familiari e tuttavia odiava stare solo; perciò insisteva affinché i suoi subalterni gli tenessero compagnia durante le ore di veglia e lo accompagnassero persino in villeggiatura.
L’assoluta coincidenza tra vita pubblica e privata rafforzò senza dubbio la dipendenza emotiva che legava Stalin al suo entourage, e l’isolamento del gruppo dal mondo esterno contribuì non poco accentuare il fenomeno. Stalin e i suoi più stretti collaboratori restavano talmente estranei a quanto accadeva nel resto del paese, talmente compresi nelle dinamiche interne e nei vari intrighi di palazzo, che quanto avveniva «al di sotto» della loro cerchia finiva con il sembrar loro quasi irrilevante. Milovan Gilas, comunista iugoslavo che dopo

la guerra ebbe occasione di trascorrere molto ‘tempo con il gruppo dirigente sovietico, descrivendo una cena avvenuta nel 1949 nella villa di Stalin, rese efficacemente l’atmosfera che vi regnava. Gli ospiti, tutti membri della dirigenza sovietica incluso Beria, erano occupati in un gioco di società. A turno dovevano indovinare che temperatura ci fosse all’esterno e poi bere un bicchiere di vodka per ciascun grado di differenza con il dato esatto. «Quello stupido gioco» racconta Gilas «fece sì che d’improvviso fossi consapevole di quanto fosse assurda tutta l’esistenza di quegli uomini che ogni sera si riunivano a gozzovigliare insieme alloro vecchio capo; eppure da quegli uomini dipendeva la sorte dell’umanità.»

Isolati, rinchiusi in se stessi e accecati da una forma di nevrosi collettiva, Stalin e i suoi luogotenenti prendevano le loro decisioni prestando pochissima — per non dire alcuna — attenzione agli interessi del popolo sovietico. In realtà, ciò che più di ogni altra cosa li teneva uniti era proprio il condiviso disprezzo per l’individuo e la capacità di infierire con crudeltà estrema e senza alcuno scrupolo sulla propria gente.
Per quanto rilevante fosse l’influenza che esercitava su Stalin, Beria stava tuttavia giocando una partita pericolosa. Considerato il tipo di paranoia da cui il dittatore era affetto, era inevitabile che prima o poi questi cominciasse a non fidarsi più del suo principale collaboratore; né gliene mancavano le ragioni, in quanto alle sue spalle quest’ultimo andava facendosi sempre più sprezzante nei confronti del vecchio capo. Tuttavia, l’esasperata diffidenza e la paura della morte avevano a quel punto talmente invaso la sua mente che Stalin non era più in grado di dirigere uomini ed eventi secondo i propri fini. O forse ne aveva ancora la capacità, ma erano i suoi scopi a essere divenuti ormai nebulosi. Per quanto continuasse a incutere timore a tutti, incluso Beria, e riuscisse a ottenere una forma almeno esteriore di completa sottomissione, contro di lui iniziava a delinearsi qualcosa di più di una celata resistenza e, nei primi anni Cinquanta, cominciavano a intravedersi i primi segni di quella che sarebbe successivamente divenuta una spietata lotta per la successione.

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