Varlam Šalamov nasce il 18 giugno 1907 a Vologda, antica città del nord ovest russo, in epoca zarista terra di confino di rivoltosi: religiosi e politici, dagli scismatici «vecchio-credenti», seguaci dell’arciprete Avvakum, al terrorista Savinkov. Suo padre Tichon, prete della cattedrale, era stato dieci anni missionario nelle isole Aleutine. Colto, «positivista fino al midollo», si schierò con l’ala innovatrice della chiesa russa. In famiglia fu marito e padre autoritario, con cui Varlam, ultimo nato di cinque tra fratelli e sorelle, entrò in radicale contrasto, fino al rifiuto della fede [1].
Varlam sa leggere a tre anni, scrive poesie a cinque, è accanito lettore di romanzi sin da fanciullo. Dotato di eccezionale memoria e spirito d’indipendenza è il migliore allievo del locale ginnasio. La madre Nadežda gli trasmette l’amore per la poesia, che lo accompagnerà per tutta la vita. Scrive di lei in una commossa lirica: «... Debitore le sono dei versi, / Del dispiegato abisso, / Dell’abisso stellato, della straziante croce»[2].
La Rivoluzione d’Ottobre e la Guerra civile mandano in rovina gli Šalamov, che avevano salutato con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio e che fino ad allora avevano vissuto decorosamente [3]. Uno dei fratelli muore, il padre perde la vista e gli emolumenti di sacerdote. Costretta a penose coabitazioni, la famiglia vende a contadini borsaneristi tutti i mobili e i beni di valore, per sfuggire alla fame. Come figlio di pope, Varlam è escluso dagli studi superiori e frequenta un istituto professionale tessile.
A Mosca. Varlam lascia Vologda nel 1924. Va a Mosca, come migliaia di altri giovani, a «dare l’assalto al cielo», a costruire «il mondo nuovo». Lavora come operaio conciatore a Kuncevo. Prende parte alla lotta contro l’analfabetismo e nel 1927 è ammesso all’Università di Mosca, facoltà di diritto. Ne viene presto espulso per aver nascosto le sue origini sociali. Varlam, che avversa la NEP per la sua anima mercantile, si schiera con gli «oppositori di sinistra» (Trockij, Zinov’ev, Kamenev): gli sembravano gli unici restati a contrastare «il rinoceronte Stalin». Frequenta gli ambienti letterari e riviste delle avanguardie tra cui il LEF (Fronte di sinistra delle arti) dominato da Vladimir Majakovskij e il Novyj LEF. Assiste assiduamente ai dibattiti ideologici, culturali e artistici di quel periodo [4].
Nel 1929 lo arrestano con l’accusa di aver stampato insieme ad altri giovani il documento segreto (il cosiddetto «Testamento») in cui Lenin, ormai vicino alla morte, esortava i bolscevichi a rimuovere Stalin dalla guida del PC per i suoi metodi autoritario-burocratici e la sua brutalità. È condannato a tre anni di reclusione, che sconta in un lager degli Urali, presso il fiume Višera. Affronta carcere, istruttoria, processo e lager con l’intransigente dignità e coraggio che tanto aveva ammirato nei populisti e nei socialisti-rivoluzionari (esery) del XIX e XX secolo, capaci di sacrificare la vita per gli ideali di libertà e giustizia sociale. E persino nei terroristi-esery che nell’agosto 1906 fecero saltare in aria la dacia del primo ministro Stolypin nell’isola pietroburghese di Aptekar. L’attentato provocò oltre 30 vittime. Stolypin si salvò. Šalamov ricorda i nomi degli attentatori, lamentando l’oblio caduto su di loro [5].
Nel lager di Višera partecipa alla costruzione di un grande complesso chimico, sperimentando la durezza di quella che a quei tempi veniva chiamata la «riforgiatura» (perekovka) dei detenuti attraverso il lavoro [6]. Liberato, ritorna a Mosca nell’ottobre 1931. Collabora con giornali sindacali ed economici e in uno di essi – «Za promyšlennye kadry» (Quadri industriali) – entra stabilmente. Si sposa con Galina Guzd’ nel 1934. Muoiono il padre e la madre. Nel 1935 nasce la figlia Elena. Un anno dopo vede pubblicato per la prima volta su una rivista – «Oktjabr’» – un suo racconto: Le tre morti del dottor Austino [7]. Finisce l’impegno politico. Si vuole destinato alla gloria di poeta e di narratore. Ha già pronti «150 soggetti di racconti e 200 poesie».
Intanto, però, al Commissariato agli interni si riapre il suo fascicolo di ex detenuto «trotskista». Nella notte del 12 gennaio 1937 gli uomini dell’NKVD vengono ad arrestarlo. È il Grande Terrore che nel ’36-38 condanna e deporta nei lager milioni di persone e ne fucila più di 700 mila, dopo pseudo-processi in cui gli imputati non hanno diritto alla difesa e all’appello [8].
Vicino alla morte Šalamov è condannato a 5 anni di detenzione in un «campo (lager) di lavoro correzionale» (ITL), per «attività controrivoluzionaria trotskista» (in sigla KRTD). Terrificante è la destinazione: l’immensa penisola che trae il nome dal fiume Kolyma che la percorre per 2000 chilometri nell’Estremo Nord-Est dell’URSS, ricca di giacimenti d’oro, carbone, riserve di legname sparsi nella sterminata taiga. Lo sfruttamento è affidato a uno dei maggiori complessi del GULAG, il Dal’stroj [9].
Là, la temperatura può scendere fino a 50-60 gradi sotto zero. Effimera durata hanno primavera ed estate. Mentre «mortifera» è la lettera “T” della sigla: contrassegna i trotskisti. Stalin ne vuole lo sterminio. Il 14 agosto 1937 Šalamov arriva per nave, assieme a migliaia di deportati, a Magadan, centro amministrativo della Kolyma [10]. Da qui viene trasferito all’interno. Comincia la sua odissea.
Tra l’agosto 1937 e il dicembre 1938 lavora agli scavi auriferi della miniera «Partizan»: fino a sedici ore di lavoro al giorno. Insufficienti le razioni alimentari distribuite in stretto rapporto con il volume di lavoro eseguito (norma) con tecniche e strumenti primitivi (vanga, piccone, carriola). Fame. Congelamenti. Malattie (scorbuto, pellagra). Soprusi e violenze da parte delle guardie, dei capisquadra-kapò scelti per lo più tra i criminali comuni. Alloggi in miserabili, sovraffollate baracche e lacere tende catramate. Fucilazioni individuali e di massa. Fosse comuni.
Kolyma è «il Crematorio Bianco», ultimo cerchio dell’inferno concentrazionario sovietico. In questo universo Šalamov vive fino al 1946. Si attiene al principio: «non temere, non credere, non sperare». E agli imperativi morali: «non tradire; non diventare caposquadra per realizzare il piano sulla pelle dei compagni di pena; conta solo su di te» [11].
Šalamov lavora in altre miniere dopo la Partizan: Kalycchan, Arkagala, Dželgala, Spokojnoj, Susuman. Oro, carbone. Partecipa al taglio del legname, alle spedizioni di prospezione mineraria, alle raccolte delle «vitamine» (aghi di pino) nella taiga. Ci sono, tuttavia, degli intervalli. Viene arrestato quattro volte. Conosce le gelide, anguste celle dei lager. Solo il terzo arresto, nel 1943, si conclude con «processo» e condanna, quando la pena inflittagli nel 1937 era già espiata, ad altri 10 anni di lager per «agitazione antisovietica»: aveva definito Ivan Bunin, scrittore russo in esilio e Premio Nobel 1933, «un grande classico russo».
Due volte, nel 1943 e nel 1946, Šalamov diventa per fame freddo fatica dochodjaga, larva d’uomo prossimo alla morte, nel gergo del lager kolymiano. Due volte lo salvano provvidenziali ricoveri negli ospedali per detenuti, nonché il forte fisico e il carattere, forgiati dalla spartana educazione paterna.
Nella primavera del 1946 è mandato a un corso per infermieri. Il diploma conseguito lo libera dai terribili fronti minerari, dalle baracche e dalle tende. È la salvezza. La resurrezione Infermiere in vari ospedali per detenuti, può di nuovo leggere libri, possedere matite e carta, specie quella da imballaggi, da cui ricavare quaderni. La poesia lo ha sottratto all’abbrutimento. Gli ha salvato memoria, linguaggio e vita. Nel 1949 inizia la prima raccolta di versi: Kolymskie tetradki (Quaderni della Kolyma) [12].
Nel 1951 la pena è espiata, ma non può lasciare la Kolyma, dove è costretto ancora a lavorare per il Dal’stroj in ambulatori di remoti villaggi. Intensifica la sua attività poetica. Nel 1952 riesce a far arrivare due quaderni di poesie a Mosca, a Boris Pasternak, il grande poeta che adora, più degli amati Puškin, Baratynskij, Tjutcev, Severjanin, Blok. Pasternak gli risponde con una lettera piena di elogi e incoraggiamenti. Per averla l’ex detenuto percorre in slitta di renna e camion 1500 km di trassa kolymiana [13].
Congedato dal Dal’stroj, Šalamov torna a Mosca, il 12 novembre 1953. La salute è malferma. Il carattere è indurito e diffidente. Alla stazione lo attende la moglie Galina, tornata a Mosca nel 1946, dopo un penoso confino nella remota Cardžou, in Turkmenistan. Gli era restata fedele, nella miseria. Gli aveva scritto cento lettere all’anno. Galina, tuttavia, non lo ospita. Ha paura: il marito non ha diritto né di soggiorno, né di visita nella capitale. Lei gli pone delle condizioni: vuole «tornare a una vita normale» e per questo il marito deve «dimenticare» la Kolyma. Liberati dal lager, gli ex detenuti erano vincolati a non parlare né scrivere della loro esperienza concentrazionaria.
Šalamov allora tronca i rapporti con lei. La figlia Elena (Lena) – che come era d’obbligo per i figli dei «nemici del popolo» lo aveva ripudiato – gli invia una lettera nell’agosto 1956, in cui lo rimprovera dell’ingenerosa rottura. Il 28 agosto 1956 Varlam comunica così a Galina la fine del loro rapporto: «Galina. Penso che non serva a niente vivere insieme. Gli ultimi tre anni hanno mostrato ad entrambi che le nostre vie si sono troppo divaricate e non c’è speranza che si riavvicinino. Non ti incolpo di niente. Tu, secondo il tuo intendimento, ti sei sforzata verso il bene, verosimilmente. Ma per me questo bene è male. [...] A Lena non scriverò. Per tre anni non ho avuto la possibilità di parlare con lei a cuore aperto. Perciò anche ora non ho niente da dirle» [14].
La ama ancora, Galina. Ma l’urgenza di ricordare e di scrivere è più forte dell’amore per la compagna che per tanti anni lo ha aspettato: «Neppure la tua, basta, di forza, / Perché dimentichi, alla fine / Le fosse comuni / dei miei cadaveri perenni». Dopo due anni il loro matrimonio è finito [15].
Šalamov deve ricordare, deve scrivere. Scrivere dell’ineffabile: «quello che ho visto io, un uomo non lo deve sapere, né vedere» – scrive in Epitaffio [16].
L’incontro con Pasternak Il 13 novembre 1953 avviene il miracolo. Šalamov è ricevuto in casa Pasternak. Il colloquio con il Poeta gli dà una gioia immensa e l’energia per scrivere. Si instaura tra i due un rapporto – fatto di lettere, e di non frequenti incontri – che verte quasi esclusivamente sulla poesia, sui poeti russi, al cui parnaso Šalamov si sente destinato ad appartenere. Poco o niente si parla tra loro delle vicende personali, tanto meno della politica. Per Šalamov, Pasternak è il grande maestro della poesia. La coscienza del tempo. Un profeta. Un dio. Varlam Tichonovic tratta di lager solo una volta, in una lettera a Pasternak dell’8 gennaio 1956. Lo fa dopo aver letto una copia del manoscritto del suo nuovo romanzo, Il dottor Živago. Pur tra i vivissimi e dettagliati apprezzamenti, il reduce della Kolyma trova che il tema del lager è solo sfiorato, e in modo impreciso. Per questo si sofferma sui suoi orribili aspetti, visti e sperimentati di persona. In particolare scrive: «L’essenziale (del lager, ndr) è la corruzione della mente e del cuore, quando all’enorme maggioranza delle persone di giorno in giorno sempre più nitidamente risulta chiaro che è possibile vivere senza carne, senza zucchero, senza vestiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senz’amore, senza dovere. Tutto viene messo a nudo e quest’ultima messa a nudo è spaventosa» [17].
Dal novembre 1953 al giugno 1956 Šalamov vive e lavora in un’azienda di torba a Turkmen, paesucolo nella regione di Kalinin. Proprio là, nel 1954, in un misero pensionato, inizia la raccolta dei Kolymskie rasskazy (I racconti di Kolyma).
Nel 1956 viene riabilitato. Può stabilirsi a Mosca, dove si sposa con la scrittrice Ol’ga Nekljudova e va a vivere nell’angusto appartamento di lei nel Choroševskoe Šosse. Intanto, nel giugno 1956, Pasternak lo ha invitato nella dacia di Peredelkino a leggere i suoi versi, di fronte a letterati e musicisti suoi amici. È una consacrazione. Pasternak, però, è avaro del suo tempo, risponde raramente e in ritardo alle lettere di Šalamov. Cessano gli incontri. Del resto, Boris Leonidovic è assorbito dalle drammatiche vicende legate al romanzo, che in URSS non viene pubblicato, alla sua pubblicazione in Italia, al Nobel, all’espulsione dall’Unione degli scrittori e alla violenta campagna mediatica scatenata in URSS contro di lui [18].
Sullo spegnersi dei loro rapporti, dopo il gennaio 1957, influiscono anche altri fattori, come la diversità di formazione, ambiente e posizione sociale, idee, destini e carattere. Aspro e solitario quello di Šalamov. Debole, mutevole, incline ai compromessi quello di Pasternak. Con amarezza Šalamov scrive: «Fino a quando ci incontrammo di persona, io lo consideravo dio, un profeta quanto meno. Egli non era né un dio, né un profeta [...] Il mantello dell’eroe, del profeta e del dio non era per le spalle di Pasternak». Lo rimprovera di non averlo aiutato a pubblicare i suoi versi. E del Dottor Živago scrive che non è la sua prosa migliore. Tuttavia, Šalamov non cessò mai di considerare Pasternak «il sommo vertice della poesia del XX secolo». Accompagnò la sua bara ai funerali del 2 giugno 1960 a Peredelkino [19].
La fortuna poetica di Šalamov
È il 1956. L’anno del XX Congresso del PC sovietico e della clamorosa denuncia del culto e dei crimini di Stalin. «Già allora – scrive Aleksandr Solženicyn – Šalamov dischiuse i suoi germogli nella primissima primavera: aveva creduto al XX congresso e avviato i suoi scritti lungo i primi precoci sentieri del samizdat. Io li lessi nell’estate del ’56 e sussultai: ecco il fratello» [20].
Nascerà, tra i due «fratelli di lager», un rapporto fatto di incontri e di lettere. Šalamov vive di una modesta pensione di invalidità e di collaborazioni con riviste e giornali. Nel 1957 ricompare, minacciosa, la sindrome di Ménière, sottovalutata dal padre durante la sua fanciullezza. Con sintomi di sordità e disturbi motorii. Intanto scrive versi e racconti, che nei secondi Cinquanta inoltra a riviste letterarie. In URSS della sua opera creativa, fino all’età della glasnost’ gorbacioviana, saranno pubblicate soltanto le poesie, e in piccola parte: nelle riviste «Moskva», «Znamja», «Junost’», nella «Literaturnaja Gazeta» e in singoli volumetti: Ognivo (L’acciarino) nel 1961; Šelest’ list’ev (Il fruscio delle foglie) nel 1964; Doroga i sud’ba (Strada e destino) nel 1967; Moskovskie oblaka (Nubi di Mosca) nel 1972; Tocka kipenija (Punto di ebollizione), nel 1977.
Pubblica anche articoli di letteratura, arte, divulgazione scientifica e storica. In una memorabile «serata poetica» Varlam legge la sua visione poetica della morte in un lager di transito del grande poeta Osip Mandel’štam. Della vedova Nadežda, da lui giudicata straordinaria memorialista, è divenuto amico. Poi, anche i rapporti con lei si interruppero [21]. Un raggio di luce nelle tenebre Il 2 marzo 1966 sfida l’aspra solitudine del poeta e scrittore un’archivista dello tsgali (Archivio statale centrale per la letteratura e le arti): Irina Pavlovna Sirotinskaja, di trentatré anni più giovane di lui, sposata con tre figli. Propone a Šalamov di affidare all’archivio di stato i suoi manoscritti. Dopo un’iniziale brusco diniego, Šalamov accetta. Inizia una preziosa collaborazione filologica, che sbocca in un’intensa relazione affettiva. Una luce si accende nella vita del poeta.
Nel 1966 Šalamov divorzia dalla Nekljudova. Il matrimonio con quella modesta scrittrice non ha lasciato grandi tracce. La Sirotinskaja raccoglie e riordina i numerosissimi, diversi e sparsi scritti del «Vikingo», come lei ha soprannominato Varlam, impressionata dall’imponente taglia fisica e dall’aspetto ardimentoso. Agli scritti sarà data la sistemazione su cui si baseranno le pubblicazioni postume šalamoviane negli ultimi anni dell’URSS e, successivamente, in Russia e all’estero, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi.
La Sirotinskaja è designata da Šalamov come l’unica erede dei diritti sulla sua opera. Fino alla sua morte (11 gennaio 2011) ne curerà la pubblicazione. Gli anni Sessanta e i primi Settanta sono, per Varlam, particolarmente intensi per creatività, letture, specie di autori occidentali tradotti: Hemingway, Faulkner, Kafka, Ionesco (di cui conosce la pièce Il rinoceronte). Grazie a Irina, visita musei, mostre d’arte, teatri. Ammira quadri di Van Gogh, Modigliani, Matisse, Picasso. Del russo Kuzma Petrov-Vodkin. A teatro si entusiasma della Vita di Galileo di Brecht, messa in scena alla Tagan’ka da Jurij Ljubimov con l’interpretazione del celebre attore e «bardo» Vladimir Vysockij.
Si interessa di scienza. Ammira l’astronauta Gagarin. Stima Nikita Chrušcev, su cui annota: «28 ottobre 1971. Ho visitato la tomba di Chrušcev. Per cinque minuti sono stato senza il cappello [...] Ha realizzato tre grandi cose Chrušcev: il ritorno (dal lager, ndr) e la riabilitazione sia pure post mortem di milioni di persone; 2) lo smascheramento di Stalin; 3) la contrapposizione nucleare del 1961: era padrone di Cuba, non sparò, restò la vita, la vita sulla terra» [22].
È in questo periodo che prende forma il ciclo dei racconti kolymiani. Si tratta di sei raccolte, per un totale di 140 racconti: I racconti della Kolyma propriamente detti (1954-1973); Ocerki prestupnogo mira (Profili del mondo criminale, 1961); Levyj Bereg (La riva sinistra) e Artist lopaty (L’artista della vanga), 1964-1965; Voskrešenie listvennicy (La resurrezione del larice), dedicato alla Sirotinskaja, 1966-1967 e, infine, Percatka, ili KR2 (Il guanto ovvero K[olymskie] R[asskazy]-2), 1973-1974.
Infine tra il 1971 e il 1974 si definiscono altri due importanti scritti autobiografici. Il primo è Cetvertaja Vologda (La Quarta Vologda) – sull’infanzia, fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza dello scrittore, sugli sfondi drammatici di Vologda e di Mosca del primo quarto del XX secolo. Il secondo è Višera-Antiroman incentrato sul suo apprendistato di lagernik.
I rapporti con Solženicyn
Intanto, nel novembre 1962, era uscito su «Novyj Mir», la più autorevole rivista letteraria russa, il povest’ Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Isaevic Solženicyn [23]. Racconta la giornata di lager di un contadino che sconta una condanna a dieci anni. Una lunga giornata di stenti, come le altre. Tuttavia, alla fine del giorno, il protagonista «è quasi felice». È sopravvissuto un altro giorno, evitando le insidie che incombono sulla testa del detenuto, ed è soddisfatto di aver «fatto con piacere un lavoro di muratura» [24]. È la prima opera pubblicata in URSS su una materia fino ad allora rigorosamente tabù. Per farla uscire, il direttore della rivista, il famoso poeta-contadino Aleksandr Tvardovskij, ha avuto bisogno dell’assenso del capo del PC sovietico Nikita Chrušcev.
Per l’URSS si tratta di un fatto sensazionale, storico. È accompagnato da entusiastici consensi e sdegnate polemiche. Šalamov invia a Solženicyn una lunga lettera di congratulazioni ed elogi entusiastici. Mitigati, tuttavia, da alcuni rilievi: il lager di Ivan Denisovic è «leggero». Gli orribili tagliagole della Kolyma – blatnye o blatari – si intravedono appena. Un gatto circola tranquillamente nel reparto sanitario. La speranza di Šalamov è che il povest’ serva da «rompighiaccio» che «sfondi la strada» verso la verità sui lager e sul resto del periodo sovietico. E, sottinteso, alla pubblicazione dei suoi racconti kolymiani [25].
Šalamov aveva già pronti una sessantina di racconti e li aveva mandati a «Novyj Mir» prima che vi arrivasse Ivan Denisovic. Ma erano restati nei cassetti. Non li aveva affatto apprezzati il direttore della rivista, entusiasta – al pari di Chrušcev – dell’eroe-contadino di Solženicyn. Il fatto è che Šalamov racconta altre storie, senza speranza, né redenzione. Non offre finali aperti e/o consolatori, come quelli di Živago o di Ivan Denisovic. E il suo stile è radicalmente opposto ai modelli correnti, tolstoiani e realisti. Non ama ricorrere a «tattiche» per ottenere l’assenso di redattori e censori [26]. La sua misantropia non facilita le sue relazioni sociali, specie nell’ambiente letterario moscovita, che detesta. Al tempo stesso a Šalamov non interessa usare la Kolyma contro il sistema né pubblicare i suoi racconti in Occidente usando i canali del samizda: «Questo spettro, pericolosissimo spettro, arma avvelenata con cui si combattono due servizi segreti (razvedki), dove la vita umana non costa di più di quanto costasse nella battaglia per Berlino» [27].
Parla con sarcasmo della «dissidenza» da cui si tiene lontano. Tra «i due fratelli di lager» emergono sempre più nette le divergenze. Šalamov è ateo, ostentatamente religioso Solženicyn. Legato ai miti e agli «eroi» della vecchia Russia rivoluzionaria Šalamov, quanto Solženicyn li odia, come precursori delle distruzione bolsceviche. Šalamov è del tutto alieno dal nazionalismo e tradizionalismo russo che ispirano l’opera di Solženicyn. I suoi racconti sono «schiaffi» a Stalin e allo stalinismo. Non si va oltre. Il male che domina nel lager è metafisico. Infine, last but not least, Šalamov rifiuta la commistione tra arte e ideologia, l’engagement dello scrittore e del poeta [28]. Da qui nasce il netto rifiuto di Šalamov alla proposta, rivoltagli da Solženicyn nell’agosto 1964, di collaborare come «co-autore» alla stesura del monumentale Arcipelago Gulag, cui lavora in clandestinità da alcuni anni. La proposta nasce da due circostanze: per un’opera di tali dimensioni «una penna non basta» e Šalamov ha avuto «un’esperienza di lager più amara e lunga della mia, e [...] proprio a lui e non a me è toccato sfiorare quel fondo di abbrutimento e di disperazione verso cui ci trascinava tutta la vita dei lager» [29].
Solženicyn concepisce l’Arcipelago Gulag come una grande opera storico-politica, un’implacabile requisitoria non solo contro Stalin e lo stalinismo, ma anche contro l’URSS, il sistema sovietico, il comunismo e l’intera tradizione rivoluzionaria russa. È destinata alle future generazioni: il sistema sovietico, secondo Aleksandr Isaevic, crollerà. Ma in un futuro lontano, che a loro non toccherà di vedere. Ma questo a Varlam non interessa. Prevale in lui l’urgenza creativa, la ricerca di una nuova prosa: «la mia prosa» [30]. E soprattutto – afferma con forza Šalamov – «spero di pronunciare una mia parola personale nella prosa russa e non mettermi all’ombra di un affarista (delets) come Solženicyn. I miei lavori in prosa li ritengo incommensurabilmente più importanti per il paese di tutti i versi e i romanzi di Solženicyn» [31]. Šalamov spende per Aleksandr Isaevic parole ed espressioni oltraggiose. Commentando i loro incontri scrive: «Dopo i numerosi colloqui con Solženicyn mi sento derubato, non arricchito». Due volte scrive di voler «proibire a Solženicyn l’accesso ai miei archivi [...] È indegno di accostarsi a una questione come la Kolyma [...]. È un grafomane irrecuperabile» [32]. Il fatto è che Solženicyn negli anni Settanta è divenuto una star internazionale politico-letteraria, consacrata da un Premio Nobel.
Dopo che in Occidente è uscito l’Arcipelago, accompagnato da un’enorme copertura mediatica, è diventato il corifeo della letteratura del Gulag. Dal lato opposto, Šalamov, che di quella letteratura è stato il precursore e il testimone più duro e segnato, è avvolto in un cono d’ombra. La sua opera non esiste. In patria i suoi racconti non sono stati pubblicati. È la sua tragedia personale. Tuttavia, per oscuri canali del samizdat i Kolymskie rasskazy arrivano in Occidente, dove vengono pubblicati col contagocce in riviste di émigrés russi: il «Novyj Žurnal» di New York e «Grani» di Francoforte, pubblicata dall’editrice Posev. Appaiono anche le prime, parziali incomplete traduzioni in Europa [33]. Il tutto senza il suo consenso, né il suo controllo. E senza che, lui, che è povero, riceva un copeco. Se Solženicyn – come aveva sostenuto Šalamov – è divenuto «un’arma della Guerra Fredda», lo diventano anche i racconti kolymiani [34].
La lettera alla «Literaturnaja Gazeta» È in questo contesto che occorre collocare la triste lettera che Šalamov invia all’organo dell’Unione degli scrittori, la «Literaturnaja Gazeta». Vi appare il 23 febbraio 1972 in una pagina interna e in un riquadro listato in nero. Quasi fosse un annuncio funebre. In un linguaggio a lui estraneo, qualificandosi «onorato scrittore sovietico» Šalamov denuncia «le fetide rivistucole fasciste [...] che con prassi abominevole, da serpenti e per sudici fini, pubblicano i miei Racconti di Kolyma, senza che mai io abbia consegnato loro alcun manoscritto, né abbia mai avuto contatti con esse». Conclude così la lettera: «Nelle condizioni poste dal XX congresso del PCUS [...] la problematica dei Racconti di Kolyma è divenuta avulsa dalla vita [...] I signori di Posev e di «Novyj Žurnal» e i loro padroni non ce la faranno a presentarmi al mondo nel ruolo di antisovietico clandestino, di emigrato interno» [35].
Solženicyn afferma che la lettera «fu per lui un colpo». E concluse, scrivendolo subito nel samizdat, che «Šalamov è morto» [36]. Quel documento, più simile a una lettera di ritrattazione più che di pentimento, obbedisce a un comprensibile moto di rabbia. Šalamov si sente «usato», sfruttato. Non va nascosta, tuttavia, un’altra circostanza. In aprile, a soli due mesi dalla pubblicazione della lettera, viene data alle stampe, la sua raccolta poetica Moskovskie Oblaka (Nubi di Mosca). Come non pensare a un ricatto esercitato su Šalamov da parte dell’Unione degli scrittori e/o del KGB? Tanto più che un anno dopo Varlam Tichonovic è ammesso nell’Unione degli scrittori, con accesso ai connessi privilegi. La Sirotinskaja, che lo aveva scongiurato di non spedire la lettera, «piange a dirotto per una settimana» dopo averla vista sul giornale degli scrittori. Definisce il fatto «una tragedia», «un crollo» [37]. Non pochi conoscenti rompono i rapporti con lui. Ma i pochi e più fedeli gli restano vicini e lo rincuorano. Anche Irina Pavlovna. Non si può «giudicare» un uomo così provato dal destino, povero e ammalato.
Tuttavia, Šalamov trova la forza di risalire la china, dopo quel cedimento, così contrario alle sue più volte conclamate convinzioni etiche. Nel 1973 inizia una nuova raccolta sulla Kolyma, che conclude l’anno successivo. È l’ultima del ciclo. Si intitola Il guanto o Racconti di Kolyma 2 ed è dedicata alla Sirotinskaja. E proprio nel Guanto scrive: «I documenti del nostro passato sono stati distrutti, le torrette di guardia segate, le baracche rase al suolo, il reticolato arrugginito riavvolto portato altrove. Sulle macerie della Serpantinka è fiorito l’epilobio, il fiore dell’incendio, dell’oblio, nemico degli archivi e della memoria dell’uomo. Siamo mai esistiti? Rispondo: ‘siamo esistiti’ con tutta la forza espressiva del verbale, con tutta l’autorevolezza, la precisione del documento». La Kolyma non è ancora «avulsa dalla vita» [38].
Anche se la lettera ha raffreddato i loro rapporti, Irina Pavlovna continua a lavorare con lui e a frequentarlo. Fino al 1976, l’anno della loro separazione «con reciproco consenso». Tra la dedizione totale che lo scrittore le chiedeva, anche per le sue peggiorate condizioni di salute, e i legami mai interrotti con la sua numerosa famiglia, la Sirotinskaja sceglie quest’ultima. È un altro colpo durissimo, irreparabile che Varlam Tichonovic subisce. Dopo, solo poche lettere, qualche telefonata.
Nel 1979 le condizioni di salute si aggravano. Alla sordità si aggiungono una quasi completa cecità e sempre più gravi disturbi motori. In quell’anno viene ricoverato nella Casa per anziani invalidi gestita dal Fondo letterario (LitFond). L’ex-moglie, Galina Guzd’, anch’essa ammalata, si rifiuta di andarlo a trovare, pur sapendo delle sue gravi condizioni e della sua disperata solitudine, visitata dalla follia. Šalamov compone ancora versi, che detta a Irina, tornata a visitarlo [39]. Ora, Šalamov è di nuovo sorvegliato dal KGB: a Londra è uscita nel 1978 la prima importante raccolta dei Racconti della Kolyma e a Parigi nel 1980 gli è stato conferito il Premio Internazionale del Pen Club [40]. A lui e ai suoi racconti si interessano i media occidentali. Ma è ormai troppo tardi. Del resto, alla Sirotinskaja, corsa ad annunciargli quel Premio, appare molto più felice di avere nella sua stanza alcuni numeri della rivista «Junost’» in cui di recente sono apparse sue poesie [41].
Per Šalamov, tuttavia, non c’è pace. Dopo un’improvvisa e frettolosa perizia psichiatrica, all’insaputa di tutti, in un freddo mattino del 14 gennaio 1982, viene trasferito in ambulanza in un ospizio per invalidi infermi di mente cronici. Una polmonite, contratta forse durante il trasferimento, ne provoca la morte, due giorni dopo. Dopo una dimessa cerimonia funebre, cui assistono quattro decine di persone e che segue qualche scagnozzo del KGB, la bara di Varlam Tichonovic, dal volto finalmente sereno, è accompagnata al cimitero di Kuntsevo, dove viene sepolto [42].
Sulla sua tomba viene collocato il suo busto in bronzo. Nel 2000, quando la fama, tardiva riparatrice, ha preso ad aleggiare sulla sua memoria, ignoti vandali decapitano il monumento. È l’ultimo oltraggio a Šalamov. Compiuto da uomini della stessa pasta di cui erano fatti gli aguzzini e i blatnye, i «ladri» incontrati da Varlam Tichonovic alla Kolyma. Una genia tutt’altro che scomparsa nella Russia post-sovietica.
Pietro Sinatti
1 Scrive Šalamov: “Sì – pensavo – io vivrò non solo diversamente da come hai vissuto tu, ma in maniera del tutto opposta ai tuoi consigli: tu hai creduto in Dio e io non crederò... tu detestavi la poesia, io la amerò”. In V. Š., La Quarta Vologda, Adelphi, Milano 2001, p. 293.
2 V.Š., Il destino di poeta, la Casa di Matriona, Milano 2006, p. 283.
3 “La rivoluzione di Febbraio fu una rivoluzione popolare, il principio e la fine di tutto. per la Russia il rovesciamento dell’autocrazia fu forse l’evento apparentemente più significativo, più luminoso rispetto a tutti quelli che seguirono [...] allora si decretò – così almeno credevamo – la fine dell’èra delle vittime, un’era durata molti anni, molti secoli”, vedi V. Š., La Quarta..., cit., (pp. 130-131).
4 La fervida atmosfera intellettuale che si respira ancora a Mosca, prima che Stalin la soffochi, è descritta da Šalamov in intense pagine, V. Š., La Quarta..., cit., pp. 148-168.
5 V. Š., La Quarta..., cit., p. 131
6 Sulla sua condotta negli interrogatori del 1929, si vedano i documenti pubblicati in V. Š., Alcune mie vite – Documenti segreti e racconti inediti, mondadori, Milano 2009, pp. 66-75. Del primo arresto e del lager negli Urali Šalamov racconta nell’autobiografico, Višera, Adelphi, Milano 2010.
7 Si veda V. Š., Sobranie Socinenij v Šesti Tomach, (d’ora in poi SSŠT) edizioni Terra-Knizhnyj Klub, Mosca 2004-2005, vol. I pp. 12-15.
8 I “Processi” erano condotti da una corte speciale (OSO) i cui membri appartenevano agli “organi“ del Commissariato agli interni (chiamati prima OGPU, poi NKVD e infine MVD). Sul Grande Terrore, i suoi metodi e le sue vittime si veda O Khlevnjuk, Stalin e la società sovietica negli anni del Terrore, Guerra, Perugia 1997. Il testo classico su questo periodo resta ancora R. Conquest, Il Grande Terrore, Mondadori, Milano 1970.
9 GULAG: acronimo che significa Direzione centrale dei lager. Presiedeva al sistema penitenziario- produttivo dei lager. È diventato sinonimo di lager. Il Dal’stroj è il grande trust statale gestito dagli organi degli interni (OGPU, NKVD, MVD) che ha il compito di gestire la costruzione delle infrastrutture e lo sfruttamento delle enormi risorse naturali dell’Estremo oriente sovietico (Dal’nyj Vostok), utilizzando la manodopera dei detenuti e contrattisti liberi. I testi più aggiornati sul tema sono: O. Khlevnjuk, Storia del Gulag – Dalla collettivizzazione al Grande Terrore, Einaudi, Torino 2006; A. Applebaum, Gulag-History, Doubleday, New york, Londra, Toronto 2003 (versione italiana, Mondadori, Milano 2004). L’acronimo è divenuto celebre, diventando anche sinonimo di lager, dopo la pubblicazione negli anni Settanta del classico A. Solženicyn, Arcipelago Gulag. In italiano è stato edito in tre volumi apparsi presso Mondadori, rispettivamente nel 1974, 1975 e 1978.
10 Vedi qui Banchina dell’inferno
11 Enunciati più volte nei Racconti e negli scritti autobiografici
12 Sui versi, la loro concezione e il loro ruolo nella vita di Šalamov si veda la lirica I versi sono un destino, non un mestiere e lo scritto Qualche annotazione sui miei versi, in V. Š., Il destino di poeta, cit., p. 253 e pp. 47-63. La vastissima produzione poetica di Šalamov si trova in SSŠT, cit., vol. 3.
13 Vedi qui il racconto La lettera. La trassa è la grande strada che collega Magadan ai centri produttivi della Kolyma.
14 Sulle condizioni poste dalla moglie si veda V. Š., Alcune mie vite, cit., pp. 144-145. La lettera della figlia e la corrispondenza con la moglie in SSŠT, vol. 6, pp. 92-93 e 91.
15 Sono versi della poesia Vozvrašenie (Il ritorno), in Sinjaja tetrad’ (Quaderno azzurro), in SSŠT, vol. 3, p. 67.
16 Compreso in questa raccolta.
17 In V. Šalamov, B. Pasternak, Parole salvate dalle fiamme – Ricordi e lettere (a cura di L. Montagnana), Rosellina Archinto editrice, Milano 1993, p. 136. Nel SSŠT la corrispondenza di Šalamov occupa l’intero sesto volume (2005). Quella con Pasternak le pp. 7-77 e il passo sopra citato è a p. 68.
18 Il romanzo arrivò in Italia dove venne pubblicato in russo e in italiano dall’editore milanese Feltrinelli, nel 1957. un anno dopo, Pasternak è insignito del premio Nobel per la letteratura che rinuncerà a ritirare, per paura di essere espulso dal Paese. Fatto, questo, che Šalamov disapprova.
19 Esprime questi giudizi nel suo breve scritto Ricordi, in V. Š., B. Pasternak, Parole..., cit., pp. 149-195; p. 190 e p. 189. Šalamov attribuisce la rottura dei rapporti con Pasternak a Ol’ga Ivinskaja, scrittrice e giovane amante di Pasternak. E scrive: “per la signora Ivinskaja Pasternak fu oggetto del più cinico commercio, di vendita...”, in SSŠT, cit., vol. 6, pp. 424-425.
20 A. Solženicyn, La quercia e il vitello, Mondadori, Milano 1975, p. 19.
21 Per la sua visione della morte di Mandel’štam, si veda il racconto Cherry-Brandy, pp. 74-79 di V. Š., I racconti di Kolyma, Einaudi, Torino 1999, a cura di I. Sirotinskaja e Anna Raffetto, traduzione di Sergio Rapetti. È la prima – splendida – edizione mondiale dell’intero ciclo kolymiano. Mandel’štam, destinato alla Kolyma, scomparve nel 1938 nel lager di transito di Vladivostok. La corrispondenza di Šalamov con la Mandel’štam è di grande interesse per i riferimenti ai poeti del 900 russo. Vedi SSŠT..., vol. 6, pp. 408-437. La rottura tra Šalamov e la Mandel’štam avvenne dopo un contrasto tra lei e Irina Sirotinskaja, su questioni di archivi. Le memorie della Mandel’štam sono state pubblicate da Mondadori, rispettivamente nel 1971 (L’epoca e i lupi) e 1972 (Le mie memorie).
22 In Zapisnye knižki (Taccuini)..., in SSŠT, vol. 5, p. 327.
23 A. Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, Einaudi, Torino 1963: è la prima edizione italiana, traduzione di Pietro Zveteremich. In Russia, esce nel numero 11 di “Novyj mir”, novembre 1962. Il povest’ è un genere letterario che indica qualcosa come un romanzo breve o un racconto lungo.
24 Si veda A. Solženicyn, Una giornata..., Einaudi, Torino 19999, p. 170.
25 In SSŠT, vol. 6, pp. 276-289. Le obiezioni di Šalamov sono a p. 284. Quella sul gatto – “possibile che nessuno lo abbia ammazzato per mangiarlo?” – viene riportata ed approvata dallo stesso Solženicyn, in una nota a un passo del secondo volume del suo Arcipelago, a p. 209, nota 1. Di questa lettera, e più in generale dei suoi rapporti e contrasti con Šalamov, scrive diffusamente lo stesso Solženicyn in un’illuminante nota apparsa su “Novyj mir”, n. 4, 1999, dal titolo S Varlamom Šalamovym, (con V. Š.). In essa si dà conto anche del rifiuto di Šalamov a partecipare alla stesura dell’Arcipelago Gulag.
26 In una lettera A Pasternak del 1956 Šalamov scrive: “La questione “essere stampati – non essere stampati”. È per me una questione importante, ma assolutamente non di primo piano. Vi sono una serie di barriere morali che non posso superareÅt. Sono quelle della verità nell’arte. Dell’inconciliabilità con la censura. Cito da V. Esipov, Rabota golovy ili rabota kolen? (lavoro di testa o di ginocchia?), Mosca, http://www.shalamov.ru/critique/23.
27 In Zapisnye... in SSŠT, vol. 5, p. 329. 28 Le divergenze sono esposte da Solženicyn nello scritto apparso nel citato n. 4 (1999) di “Novyj mir”.
29 A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1975, vol. 2, p. 220.
30 Della “mia prosa” Šalamov ha scritto in una lettera-saggio dedicata alla Sirotinskaja. È pubblicata in V. Š., Nel lager non ci sono colpevoli, Theoria, Roma-Napoli 1992, a cura di Laura Salmon e introduzione di Piero Sinatti, pp. 143-160.
31 In Zapisnye, SSŠT..., vol. 5, p. 363.
32 Idem, p. 353, p. 302, p. 364.
33 In Francia escono nel 1969 presso Gallimard con il titolo Article 58 – Mémoires du prisonnier Chalanov (sic) e presso Denoel con il titolo Récits de Kolyma. In Italia, nel 1976 con il titolo Kolyma – Racconti dai lager staliniani, Savelli, Roma (1976 e 19782). Escono anche in quegli anni ridotte edizioni in inglese e tedesco.
34 Scrive Šalamov nella lettera non spedita del 1974: “Pasternak è stato vittima della Guerra Fredda. Solženicyn ne è uno strumento” In Zapisnye... in SSŠT, vol. 5, p. 367.
35 La lettera di Šalamov si trova in calce a, V.Š., Kolyma, 30 racconti dai lager staliniani, cit., pp. 259-260.
36 A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, vol. 2, cit., pp. 622-623 e p. 628. Della lettera Solženicyn scrive anche nel già citato articolo apparso su “Novyj mir”.
37 I. Sirotinskaja, Moj drug Varlam Šalamov (Il mio amico Varlam Šalamov), Mosca 2007, ://www.shalamov.ru/memory/37/1.html. Sulla relazione tra Varlam Tichonovic e Irina Pavlovna si veda la loro (incompleta) corrispondenza epistolare, pubblicata in SSŠT, vol. 6, pp. 441 515. Della separazione la Sirotinskaja dà conto in due sue annotazioni (id., p. 442 e p. 509).
38 In V.Š., I racconti di Kolyma, cit., p. 1073. la Serpantinka (o Serpantinnaja) è la località dove avvenivano le esecuzioni di massa del 1937-1938 ed è spesso citata nei racconti kolymiani.
39 Le ultime tre, composte nel 1980 e nel 1981, si trovano in SSŠT, vol. 3, pp. 440-442. In italiano si vedano le belle versioni di angela D. Siclari, in Il destino..., cit., pp. 302-307.
40 V. Šalamov, Kolymskie Rasskazy, Overseas Publications, Londra 1978 a cura e con introduzione dello storico russo in esilio Michajl Geller. Due anni dopo in GB e Francia usciranno, tradotte rispettivamente da Penguin-Classics e Maspero, due grandi raccolte Šalamoviane calcate sull’edizione Overseas, all’insaputa e senza il consenso di Šalamov.
41 I. Sirotinskaja, op.cit. (senza indicazione di pagina sul web).
42 Gli ultimi giorni di Varlam Tichonovic sono raccontati con sobria commozione nell’ultima parte di un bel seriale su di lui dal titolo Zavešanie Lenina (Il testamento di lenin), scritto da Jurij Arabov (lo sceneggiatore di Aleksandr Sochurov) e diretto da Nikolaj Dostal’. È andato in onda per la prima volta nel 2007 su Kanal Rossija.







