"Misurato a parte" è un brano tratto dalla raccolta "I racconti della Kolyma" di Varlam Shalamov.
A sera, arrotolando il metro a nastro, il sorvegliante disse a Dugaev che il giorno seguente il suo lavoro sarebbe stato misurato a parte. Il capo squadra che era accanto a lui e gli chiedeva di fargli credito di una «decina di metri cubi fino a dopodomani», tacque improvvisamente e guardò la stella della sera che cominciava a brillare sopra il crinale della montagna. Baranov, che lavorava in coppia con Dugaev e che aveva aiutato il sorvegliante a misurare il lavoro fatto, afferrò la pala e si mise a pulire il fondo della trincea, che già da tempo era stata vuotata.
Dugaev aveva ventitré anni e, più che spaventato, era stupito da tutto quello che vedeva e udiva qui.
La squadra si era radunata per l’appello serale, aveva riconsegnato gli arnesi e i detenuti, nel solito ordine sparso, erano rientrati nelle baracche. Alla mensa Dugaev, senza sedersi, bevve dall’orlo della scodella la porzione di minestra di grano mondato, fredda e acquosa. Il pane dell’intera giornata veniva distribuito la mattina e da tempo era già stato mangiato. Aveva voglia di fumare. Si guardò intorno, pensando di chiedere uno scorcio. Sul davanzale della finestra, Baranov raccoglieva in un pezzetto di carta granelli di machorka tirati fuori da un sacchettino. Raccoltili accuratamente, Baranov arrotolò una sigaretta e la porse a Dugaev.
– Fuma. Lasciamene un po’ – disse.
Dugaev si meravigliò; lui e Baranov non erano amici. Inoltre quando c’è fame, freddo e non si dorme, non si fa amicizia e Dugaev, nonostante fosse giovane, capiva tutta la falsità del detto secondo cui l’amicizia si vede nell’infelicità e nella disgrazia. Perché l’amicizia sia amicizia occorre che siano già state gettate salde fondamenta quando le condizioni non sono ancora arrivate al limite estremo al di là del quale nell’uomo non c’è più nulla di umano, ma c’è solo diffidenza, rabbia e menzogna. Dugaev capì molto bene un proverbio del Nord: non credere, non temere, non chiedere: i tre comandamenti del detenuto.
Dugaev aspirava avidamente il dolce fumo della machorka e si sentiva girare la testa.
– Sto diventando debole – disse.
Baranov tacque.
Dugaev ritornò nella baracca, si sdraiò e chiuse gli occhi. Negli ultimi tempi era stato male, la fame gli impediva di dormire. Faceva sogni particolarmente tormentosi, grandi forme di pane, minestre dense e fumanti. Quella notte si svegliò più di una volta. Il sonno tardò a venire; tuttavia mezz’ora prima della sveglia Dugaev aveva già aperto gli occhi. La squadra si avviò al lavoro. Ognuno raggiunse il proprio punto di scavo.
– Aspetta, tu – disse il caposquadra a Dugaev –. Te, ti sistemerà il sorvegliante.
Dugaev sedette per terra. Era ormai arrivato a una spossatezza tale che qualsiasi mutamento del proprio destino lo avrebbe lasciato indifferente.
Cominciava il fracasso delle carriole sulla passerella, il suono metallico delle vanghe che battevano nella roccia.
– Vieni qui – disse il sorvegliante a Dugaev –. Il tuo posto è qui.
Misurò la cubatura della porzione da scavare e ci mise un segno: un pezzetto di quarzo.
– Qui, qui – disse –. Quello che si occupa delle passerelle ti sistemerà la tavola fino alla passerella principale che devi raggiungere con la carriola. Eccoti la vanga, il piccone, la piccozza, la carriola. Su, attacca.
Docilmente, Dugaev cominciò a lavorare.
– Meglio così – pensava –. Nessuno dei compagni si metterà a offendermi perché lavoro male.
Ex-agricoltori, non erano obbligati a capire e sapere che Dugaev era un novellino e che subito dopo la scuola aveva cominciato a studiare all’università e dai banchi dell’università era passato alla miniera.
Ognuno per sé: non avevano l’obbligo, non dovevano capire che già da tempo era esausto e affamato, che non sapeva rubare; la capacità di rubare: ecco la più importante virtù del Nord, in tutte le sue forme, a cominciare dal pane del compagno per finire con l’assegnazione dei premi di mille rubli alla direzione per risultati mai raggiunti nella produzione. Non importava a nessuno che Dugaev non potesse sopportare una giornata di lavoro di sedici ore.
Dugaev trasportava la carriola, picconava, caricava, e di nuovo picconava, scavava e caricava.
Dopo l’intervallo per il pasto, arrivò il sorvegliante, dette un’occhiata a quanto aveva fatto Dugaev e senza dir nulla se ne andò... Dugaev si mise di nuovo a picconare e caricare. Era ancora molto lontano dal pezzo di quarzo.
La sera il sorvegliante ritornò, srotolò il metro a nastro. Misurò quanto aveva fatto Dugaev.
– Venticinque per cento – disse e guardò Dugaev – venticinque per cento; mi senti?
– Sento – disse Dugaev.
Questa cifra lo stupiva. Era un lavoro così pesante; così poca era la roccia che restava attaccata alla vanga; così pesante era il piccone. La cifra, il venticinque per cento della norma, sembrava a Dugaev molto alta. Dolevano i polpacci per lo sforzo di portare la carriola; facevano un male insopportabile le braccia, le spalle, la testa. Da molto non sentiva più la fame. Dugaev mangiava perché vedeva mangiare gli altri. Qualcosa glielo suggeriva: si deve mangiare. Lui non aveva voglia di mangiare.
– E allora, cosa devo fare? – disse il sorvegliante andandosene –. La pelle mi preme.
La sera chiamarono Dugaev dal giudice istruttore. Rispose a quattro domande: nome, cognome, reato, pena. Quattro domande che vengono fatte al detenuto trenta volte al giorno. Poi Dugaev andò a dormire.
Il giorno dopo lavorò di nuovo con la squadra, con Baranov e due giorni dopo, di notte, i soldati lo portarono dietro la stalla; poi lo condussero per un piccolo sentiero che dava nel bosco, in un luogo dove, delimitando un piccolo passaggio, si ergeva un’alta palizzata sulla cui sommità era steso del filo spinato e da dove, la notte, giungeva un remoto cigolio di trattori. Dugaev capì di cosa si trattava, rimpianse di aver lavorato inutilmente, di essersi tormentato inutilmente, quel giorno, l’ultimo giorno.







