La psicologia di Beria e di Stalin

Riportiamo qui parte del capitolo introduttivo del bel libro di Amy Knight - Beria - in cui la ricercatrice mette in evidenza le affinità psicologiche di Beria e Stalin e il loro comune background culturale e sociale.

Chi si trovò al capezzale di Stalin ai primi di marzo del 1953 non poté non constatare come Lavrentij Pavlovi Beria, in piedi accanto al moribondo, a stento riuscisse a mascherare la sua gioia nel vedere il dittatore avvicinarsi agli ultimi attimi di vita [Beria, l'Hilmmler sovietico]. Da quando si erano incontrati, negli anni Venti, i due uomini avevano condiviso molte avventure. Beria, che per anni era stato uno degli uomini chiave del governo e dal quale dipendeva l’intero apparato della polizia sovietica, si era trovato al fianco di Stalin nei momenti cruciali della dittatura. Tuttavia, verso il 1950 il loro rapporto, sebbene in apparenza ancora solido, aveva iniziato a incrinarsi. Stalin aveva cominciato a diffidare di Beria e a maturare l’intenzione di disfarsi di lui; Beria ne era consapevole e aveva quindi le sue ragioni per rallegrarsi della morte del dittatore. 

Ma la scomparsa del leader concesse a Beria una tregua solo temporanea: tre mesi più tardi, un drammatico colpo di mano promosso da Nikita Kruscev e dagli altri membri della dirigenza portò all’arresto dell’ex braccio destro di Stalin. Per giustificare la loro azione, gli avversari di Beria lo accusarono di spionaggio e tradimento. Nel dicembre del 1953, al termine - o forse addirittura prima - di un processo avvenuto a porte chiuse, Beria venne giustiziato e il suo nome espunto dalla memoria ufficiale.

Per sottolineare simbolicamente la sua «non esistenza» i redattori della Bol’saja sovetskaja énciklopedija inviarono a tutti gli abbonati una nota che suggeriva con discrezione di eliminare «con un coltellino o una lametta» la voce «Beria» fornendo in sostituzione una voce sul «mare di Bering». Nei successivi trent’anni nessuna storia ufficiale, nessun libro di testo, nessun memoriale autorizzato menzionò più il nome di Beria, se non per rari accenni allo «spietato criminale». Ma chi sopravvisse all’era staliniana non si dimenticò di lui: associato nella memoria alla terribile polizia politica e bollato dai suoi nemici come traditore, finì con il diventare (e rimanere ancora oggi) nell’immaginario collettivo il simbolo stesso di quel periodo buio. Mentre è ancora possibile formulare un giudizio ambivalente sulla figura di Stalin, riconoscendogli malgrado tutto doti di leader, il nome di Beria suscita inequivocabilmente paura, odio e disprezzo.

Per quanto il capo della polizia politica si sia certamente reso colpevole di orrendi misfatti, il proliferare di miti e leggende intorno alla sua figura ha impedito di cogliere la complessità dell’evoluzione della sua carriera, nonché di riconoscere la fondamentale importanza del ruolo che svolse nella politica sovietica interna ed estera fin da prima della seconda guerra mondiale. Il fatto di considerarlo uno dei più spietati collaboratori di Stalin ha impedito agli storici di prendere atto che, nonostante la crudeltà dimostrata, Beria portò a termine il suo compito con acume ed efficienza e giunse a esercitare una profonda influenza sulla politica sovietica. Inoltre, non è stato compreso come, all’epoca della morte di Stalin, il suo luogotenente fosse ormai divenuto un deciso propugnatore di una riforma di carattere liberale.
Questo saggio, che fornisce nuove interpretazioni di fonti note e attinge a documenti inediti resi consultabili dalla glasnost’, non intende affatto «riabilitare» Beria; intende, piuttosto, rimettere in discussione alcuni assunti di base relativi a Beria e al sistema stalinista in generale. Uno di questi riguarda la misura in cui lo stesso Stalin abbia effettivamente dominato gli eventi politici. La maggior parte degli storici considera Stalin un dittatore assoluto dotato di un potere illimitato, almeno a partire dal 1935. Nonostante le contrastanti valutazioni delle ragioni che lo portarono alla guida del paese e le divergenze circa l’analisi delle debolezze e dei punti di forza del sistema da lui istituito, quasi tutti gli studiosi concordano nel ritenere che il leader avesse saldamente in mano le redini dello stato sovietico. I suoi subordinati sono stati in genere considerati semplici pedine o vassalli che, per quanto agissero come «piccoli dittatori» nei rispettivi territori di influenza, erano tuttavia sempre pronti a inchinarsi al volere del capo.

Dato il prevalere di questa opinione non sorprende, dunque, che gli storici abbiano focalizzato la loro attenzione su Stalin, relegando i suoi più stretti collaboratori al ruolo di mere comparse. La biografia del dittatore è stata analizzata nei minimi particolari per permettere di fare luce sulla sua personalità; i moventi del leader sovietico sono stati passati al setaccio, mentre si è dimostrato ben scarso interesse per le motivazioni e la personalità degli altri membri del gruppo dirigente. Il solo Kruscev è stato giudicato degno di una seria analisi biografica, essendosi impadronito del potere dopo la morte di Stalin.
Se si considera l’impatto storico avuto da Stalin, la particolare attenzione dedicata alla sua personalità può apparire giustificata; tuttavia, non c’è potere dittatoriale che possa dirsi davvero assoluto, dipendendo sempre in parte dalla lealtà dei più stretti collaboratori. Proprio per questa ragione gli storici dovrebbero studiare più da vicino la psicologia dei sottoposti di Stalin e la dinamica delle loro interrelazioni. Sebbene dall’esterno potesse apparire onnipotente, Stalin non si fidò mai completamente dei suoi diretti collaboratori. Al contrario, secondo i biografi del dittatore, la sua insicurezza, che traeva origine da profondi squilibri psichici, superava di gran lunga i limiti della razionalità e con il passare degli anni finì con il trasformarsi in una grave forma di paranoia. Stalin divenne estremamente sospettoso, talmente ossessionato dalla possibilità di essere tradito da non fidarsi più di nessuno. Per questa ragione si rifiutò sempre di nominare un successore ufficiale e continuò a tessere intrighi ai danni dei suoi sottoposti nell’intento di contrapporli gli uni agli altri, di isolarli, costringendoli, per scongiurare il rischio di iniziative comuni, a fare capo personalmente a lui.
La strategia staliniana del divide et impera ebbe successo soprattutto perché, come estremo deterrente contro ogni tentazione di tradimento, il dittatore utilizzava lo spauracchio dell’eliminazione fisica: Stalin non dovette mai affrontare un’aperta opposizione proprio perché tutti sapevano che alla minima disobbedienza rischiavano la morte. D’altra parte era inevitabile che la paranoia riducesse la sua efficienza di leader e, cosa ancora più grave, lo rendesse psicologicamente manipolabile. Per sua fortuna Stalin riuscì a circondarsi, perlopiù di docili burocrati privi dell’immaginazione e della sensibilità necessarie a penetrare nei meandri della sua mente. Beria era il solo a fare eccezione.

Nato nel 1899, vent’anni dopo Stalin, il futuro capo della polizia politica non apparteneva alla generazione di rivoluzionari che avevano combattuto lo zar. Si era iscritto al partito bolscevico soltanto nel 1917, ma, come Stalin, era georgiano e condivideva con il suo mentore la capacità di esercitare nei confronti dei connazionali la repressione più spietata. Durante gli anni Venti e Trenta, prima come capo della polizia e successivamente come leader del partito in Georgia e Transcaucasia, Beria aveva conquistato la fiducia di Stalin per essere riuscito, senza nessuno scrupolo, a imporre il dominio sovietico e per aver contribuito, ai fini del proprio potere personale, a rafforzare il culto del capo. A differenza di molti altri dirigenti delle repubbliche nazionali, egli riuscì a sopravvivere alle purghe del 1936-1938, pur avendo rischiato in qualche occasione l’arresto. Quando, nel 1938, si trasferì a Mosca per assumere il comando della temutissima polizia politica sovietica, l’NKVD, Beria si era già macchiato del sangue di migliaia di connazionali georgiani. Pur essendo uno degli ultimi arrivati, ben presto riuscì a insinuarsi nella ristretta cerchia dei collaboratori di Stalin fino a divenire, nei successivi quindici anni, la seconda autorità del Cremlino.
Nel suo incarico all’NKVD, Beria diresse le operazioni di spionaggio, controspionaggio e sicurezza interna negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale e durante tutto il corso del conflitto. Inoltre, sovrintendeva a quella vasta organizzazione di lavoro forzato, il Gulag, che forniva una parte consistente della manodopera indispensabile all’economia sovietica. Durante la guerra, per fronteggiare l’avanzata tedesca, organizzò l’immensa evacuazione verso est dell’intero apparato industriale per la difesa e, nel 1945, ricevette da Stalin l’incarico di sovrintendere al progetto per la realizzazione della bomba atomica. Sebbene nel 1946 Beria avesse formalmente trasferito il controllo delle forze di polizia e della sicurezza a uomini di fiducia, nella sua posizione di membro effettivo del Politbjuro e di vicepresidente del consiglio dei ministri continuò a occuparsi, sia pure a distanza, di questo settore. Ciò lo avvantaggiava rispetto agli altri dirigenti nelle lotte per il potere che caratterizzavano la politica del Cremlino e che divennero, negli anni del dopoguerra, sempre più aspre via via che la salute fisica e mentale di Stalin andava declinando.
Beria fu sotto tutti gli aspetti un politico astuto che seppe fare buon uso della trama di alleanze politiche che aveva ordito in Transcaucasia e all’interno delle forze di sicurezza, circondandosi di un gruppo di fedelissimi sostenitori. La sua carriera testimonia quanta importanza avesse nel sistema staliniano il clientelismo, soprattutto quello basato sulla lealtà tra conterranei. Ma alla crescita del suo potere politico contribuì anche la particolare influenza che esercitava su Stalin; sebbene i suoi rapporti con il dittatore non siano stati sempre distesi, fin dall’inizio Beria fu in grado di superare le crisi perché riusciva a comprendere la specifica psicopatologia di Stalin meglio dei suoi colleghi. In quanto georgiano, conosceva il retroterra culturale e sociale in cui Stalin era cresciuto e il tipo di società dalla quale il dittatore aveva assorbito quei valori e quegli orientamenti che lo avrebbero condizionato per tutta la vita. I georgiani sono un popolo profondamente legato alle tradizioni nazionali e fortemente consapevole delle proprie radici culturali e sociali; anche se negli ultimi anni Stalin divenne, almeno in apparenza, del tutto «russificato, essendosi lasciato alle spalle il proprio passato georgiano, nel privato conservò intatto l’influsso del suo patrimonio culturale.

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